Tao tê ching: il libro e i problemi di traduzione

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Tao tê ching: il libro e i problemi di traduzione

È ormai luogo comune, abusato ma accettato cliché, ritenere la traduzione un tradimento, un processo in cui il testo di partenza e il testo finale possono presentare delle diversità anche sostanziose e difficili da evitare, in cui il passaggio da una lingua a un’altra può costare sacrifici in termini di significato. Un caso limite può essere la traduzione di un proverbio, cioè di un detto popolare che in quanto tale è radicato in una cultura e in un contesto: laddove la traduzione letterale risulterebbe incomprensibile ai destinatari, si ricorre a traduzioni volutamente infedeli purché siano comprensibili, traduzioni fondate su affinità di senso.

Ci sono testi che, più di altri, necessitano di una consapevole opera di traduzione/tradimento, che pongono problemi talvolta insormontabili, tali che l’onesto e cauto traduttore, in determinati punti, deve esplicitare quanto la sua azione non possa che essere deficitaria e non possa che arrendersi addirittura all’intraducibilità. È proprio questo il caso del Tao tê ching.

Chi era Lao-tzu, l’autore

Il Tao tê ching è un antico testo cinese in prosa con molte parti in rima scritto tra il IV e il III secolo a.C. da un saggio di nome Lao-tzu.

Nella storia si sono susseguiti diversi metodi per trascrivere il cinese in alfabeto latino. Per questo motivo lo stesso nome di Lao-tzu è noto in diverse versioni: Lao Tse, Lao Tze, Lao Tzi, fino alla trascrizione secondo il sistema Hànyǔ Pīnyīn adottato dal 1958, Laozi.

La figura di Lao-tzu è leggendaria, di ardua contestualizzazione storica. Pochi e incerti i dati disponibili sulla sua vita. Si dice sia stato contemporaneo di Confucio, che sappiamo vissuto tra il VI e il V secolo a.C. Lao-tzu è stato un filosofo venerato, considerato una delle “Tre Purità” del taoismo, uno dei tre insegnamenti – o religioni – cinesi (gli altri due sono il buddismo e il confucianesimo).

Memorabile è quanto è riportato sulla composizione del Tao tê ching in Memorie storiche di Sima Tan e del figlio Sima Qian, opera storiografica composta durante il regno dell’imperatore Wu (140-87 a.C.).

Qui si dice che Lao-tzu, archivista nella Biblioteca imperiale della dinastia Zhou (1122-256 a.C.), a ottant’anni, a causa del degrado morale e della decadenza dei Zhou, abbia deciso di partire. Giunto al confine, il doganiere gli avrebbe chiesto, prima di lasciarlo andare, di scrivere un libro per lui. Il libro fu proprio il Tao tê ching. Ottemperato alla richiesta, Lao-tzu avrebbe varcato il confine lasciando perdere le sue tracce per sempre.

Che cos’è il Tao tê ching

Il Tao tê ching è un libro che spinge a porsi una domanda paradossale: che cos’è. Tale domanda ne preannuncia la natura extra-testuale, l’impossibilità a delimitare il libro a testo con dei contenuti scritto da un autore in un determinato anno o periodo storico. Abbiamo già visto che poche sono le certezze circa l’autore, presumibilmente Lao-tzu di identità storica al limite dell’ignoto. Se ci interroghiamo sulla datazione non perveniamo a una conclusione certa: non abbiamo la prima edizione, che si ipotizza datata secoli prima rispetto alle edizioni circolate.

Premesso tutto quanto non si sa a proposito del libro, non resta che soffermarci sui contenuti.

L’oggetto di cui si parla è il Tao, inteso come “via” da seguire (e anche qui, le interpretazioni/traduzioni divergono), in senso mistico (e questo prima che il taoismo, nel I sec. d.C., divenisse religione istituzionalizzata). L’incipit ci fa comprendere subito che quanto si legge non si può mai capire con chiarezza, ma solo equivocare sperando che l’equivoco si avvicini a una presumibile verità, mai univoca:

La via che si può considerare la via non è una via invariabile; i nomi che si possono considerare nomi non sono nomi invariabili”.

(Lao-tzu, Il libro del Tao. Tao tê ching, cura e traduzione di Girolamo Mancuso, Newton Compton, 2013, p. 23).

Ognuno degli 81 capitoli che compongono il libro contiene precetti etici, una visione dell’esistenza, cosa fare e non fare, come reagire e non reagire agli eventi, una visione politica, come gestire il potere, e altro. Tuttavia questi contenuti restano in gran parte inintelligibili per diversi motivi: la traduzione, l’uso di uno stile lirico con approccio metaforico connesso, la tradizione del testo in cui c’è incertezza su quanto farebbe parte del testo originario e su quanto è stato aggiunto dopo.

Il Tao tê ching pone il lettore dinanzi a una tale quantità di problemi che dire di cosa parla è, di fatto, impossibile. Di certo non è un semplice libro: racchiude un tempo sconosciuto, una filosofia, una visione del mondo che non si presentano come uno, ma come molteplici. Si tratta di un libro che presume l’accettazione della contraddizione, accettazione facile per il lettore orientale, quasi impensabile per il lettore occidentale.

La scrittura cinese

La scrittura cinese ha origine tra il XVII e il XIV sec. a.C, Le fonti più antiche sono iscrizioni oracolari su ossa animali e risalgono al XIII sec. a.C.; dall’XI sec. a.C. il suo uso, prima limitato al campo religioso, si è esteso alle classi nobiliari.

Il cinese è una lingua tonale, cioè una lingua in cui il tono determina il significato e la funzione grammaticale di una parola, ad alfabeto logografico, cioè un alfabeto la cui unità minima è il logogramma, un segno che corrisponde a un morfema o a una parola.

Il 4% dell’alfabeto deriva direttamente dai pittogrami, segni che rappresentano non il suono ma l’oggetto. I caratteri restanti sono aggregati logici, cioè caratteri composti da più elementi, e composti fonetici, cioè caratteri che fondono l’elemento dell’area semantica di appartenenza con l’elemento che ne indica la pronuncia.

Uno dei problemi che il cinese pone a chi usa l’alfabeto latino è la sua trascrizione: la romanizzazione della lingua cinese, nella storia, è stata attuata secondo diversi sistemi, e la sua utilità maggiore è quella di chiarire la pronuncia dei caratteri, pronuncia che, come abbiamo visto, è determinante per capire i significati e le funzioni delle parole.

Il sistema di trascrizione che oggi è standard internazionale è l’Hànyǔ Pīnyīn, diffusosi dal 1982 e adottato dall’Organizzazione Internazionale per le Standardizzazioni (ISO). Si tratta del risultato della riforma della scrittura avviata nel 1949 dalla Repubblica Popolare Cinese per favorire l’alfabetizzazione delle masse.

Il Tao tê ching: la lettura di Giuseppe Montesano

Lo scrittore Giuseppe Montesano, nel suo ponderoso Lettori selvaggi. Dai misteriosi artisti della Preistoria a Saffo a Beethoven a Borges la vita vera è altrove (Giunti, 2016) – “opera-mondo della creatività umana” che incrocia diversi campi della cultura e dell’arte dell’uomo –, dedica un capitolo al Tao tê ching. Ribadisce più volte l’impossibilità di giungere a comprendere questo libro, un’impossibilità che riguarda non solo i lettori contemporanei, ma anche i primi lettori. Il Tao tê ching è pieno di contraddizioni, di cose dette in modi diversi conducendo il lettore a significati diversi, di ellissi, di immagini poetiche misteriose, un libro che vanifica ogni tentativo di interpretazione. Montesano si sofferma anche sui problemi di traduzione: “nessun libro presenta traduzioni così difformi tra di loro, in tutte le possibili lingue e anche in una stessa lingua” (p. 109). Per dimostrare questa tesi riporta sette traduzioni diverse dell’inizio del primo capitolo – traduzioni in francese, inglese e italiano – dalle quali si evince lo scacco con cui deve confrontarsi il traduttore quando si accosta a quest’opera.

Lo scrittore poi suggerisce una edizione italiana che affronta il problema in maniera “originale”: Tao tê ching. Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo (Apogeo, 2009), a cura di Augusto Shantena Sabbadini. La particolarità di questa edizione è quella di fornire, per ogni passo, più versioni, e di indicare per ogni ideogramma varie traduzioni possibili. Oltre a permettere di confrontarsi con diverse traduzioni, questa edizione offre al lettore la possibilità di giungere a una traduzione personale.

La traduzione del Tao tê ching

Girolamo Mancuso, il curatore e traduttore de Il libro del Tao. Tao tê ching (Newton Compton, 2013), si sofferma a lungo sui problemi di traduzione di questo libro.

Il punto di partenza è che i problemi non si limitano ai singoli passi, ma derivano dal senso complessivo dell’opera. Ogni traduttore, inevitabilmente, si approccia al testo usando la propria prospettiva critico-filosofica, e ogni traduzione è innanzitutto un tentativo di interpretazione dell’intero testo.

Mancuso dichiara di essersi proposto di affrontare la traduzione in maniera neutrale, al contempo sottoscrive un passaggio di Marcel Granet tratto da Il pensiero cinese (1934; Adelphi, 1971) che inizia con una dichiarazione di resa: “bisogna confessare che questo libro, tradotto e ritradotto, è propriamente intraducibile”. L’intraducibilità è così rimarcata dal traduttore:

Dei circa ottocento termini usati nel testo, più della metà sono «propriamente intraducibili», nel senso che non esistono termini italiani propriamente equivalenti. Il traduttore (e il lettore) deve quindi accontentarsi di approssimazioni”.

(p. 110).

Oltre a questo problema di natura semantica, c’è un problema di natura sintattica. Poiché in cinese “non esistono […] sostantivi, aggettivi, verbi, ecc. ma solo parole polivalenti che, di volta in volta, possono svolgere la funzione di sostantivi, aggettivi, verbi, avverbi, ecc.” (p. 112), i verbi non sono coniugati, sostantivi e pronomi possono essere letti sia al singolare sia al plurale, e poiché tono e contesto fanno anch’esse la differenza, accade spesso che le frasi siano traducibili in diverse versioni.

Se a tutto questo si aggiunge che il testo originale non era diviso in capitoli e ha subito, nel tempo, un significativo numero di interpolazioni, si capisce come sia arduo, per un traduttore, pensare di avvicinare sé e il lettore al senso originario del Tao tê ching.