Traduttori italiani famosi: Fernanda Pivano

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Fernanda Pivano (1917-2009) è una delle figure più significative del 900 letterario italiano; il secolo lo ha cavalcato, più che percorso, e il suo “mestiere” di saggista, traduttrice, scrittrice e giornalista è soltanto il corrispettivo percettibile di un impegno totalizzante, che è piena e fulgida espressione di sé.

Negli anni trenta Fernanda è una ragazza inquieta, che male si accorda al perbenismo imperante, con le rappresentazioni contraffatte della società plasmate dal regime fascista. Osserva le luci sporadiche d’oltreoceano, raccogliendone le frequenze e l’energia, intercetta bagliori che testimoniano l’esistenza di una letteratura viva, che non fa sconti alla realtà.

Nata per stare al di fuori degli schemi, o almeno sul frangente di una visione autonoma, mai assoluta, Fernanda Pivano non sarebbe stata la paladina dell’alterità culturale dell’epoca (e di molte epoche successive) se non avesse incrociato il suo cammino con quello di maestri in grado di riconoscere l’essenza, l’urgenza della contemporaneità nelle opere vessate dal conformismo e dalla Ragion di Stato.

Ancora adolescente ha la fortuna di avere come professore (al Liceo Massimo D’Azeglio di Torino) Cesare Pavese, il primo a consegnarle un canone innovativo, quello che comprendeva la letteratura statunitense con i suoi rappresentanti più significativi. L’impronta di Pavese proseguirà a dare un indirizzo ben preciso al fervore di conoscenza della Pivano anche negli anni a seguire, suggerendole di abbandonare il progetto di laurearsi con una tesi su Mary Shelley per abbracciare in toto la missione di valorizzare la letteratura d’oltreoceano. Proporrà, il grande scrittore e poeta piemontese, una quaterna di opere e scrittori da cui la studentessa in procinto di laurearsi non potrà prescindere e che per lei diverranno fondamentali: Foglie d’erba di Walt Whitman, Addio alle armi di Ernest Hemingway, l’autobiografia di Sherwood Anderson e l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Proprio quest’ultima opera segnerà l’avvio della carriera di traduttrice di Fernanda Pivano, nel 1943, un esordio per la casa editrice Einaudi che si avvarrà della supervisione dello stesso Pavese.

Pubblicare in quell’anno l’Antologia di Spoon River forniva un indizio inequivocabile sull’attitudine della giovane traduttrice di navigare controcorrente: la raccolta poetica di Edgar Lee Masters, con la sua sconcertante, per l’epoca, trasparenza di intenti, per il suo essere anticonformista, contribuiva a mettere fuori fuoco la tracotanza e i simboli elaborati dal ventennio fascista. Basti pensare che per sfuggire alla censura il volume venne dato alle stampe con il titolo camuffato di “Antologia di S. River”, facendolo passare per una raccolta di riflessioni partorite da un fantomatico santo “fiume”.

Non c’è dubbio che per un’adolescenza come la mia, infastidita dalla roboanza dell’epicità a tutti i costi in voga nel nostro anteguerra, la semplicità scarna dei versi di Masters e il loro contenuto dismesso, rivolto ai piccoli fatti quotidiani privi di eroismi e impastati soprattutto di tragedia, erano una grossa esperienza…

Fernanda è, in maniera manifesta, sul lato “pericoloso” della strada, condizione che le è congeniale, presupposto per non subire e accettare condizionamenti. Ancora una volta incappa nella tirannia ideologica quando, durante una perquisizione, le SS trovano su uno scaffale della casa editrice una copia del contratto per la traduzione del capolavoro “Addio alle armi” di Ernest Hemingway, libro ritenuto offensivo a causa delle sue posizioni antimilitariste. Sul documento di collaborazione compare il nome di Fernando, motivo per cui durante una retata a casa Pivano le autorità militari arresteranno il fratello al posto della traduttrice dell’opera.

Hemingway è una delle voci innovative che in quegli anni iniziano a circolare nelle redazioni e nelle associazioni letterarie: nel suo destino c’è il nostro paese (fu autista di ambulanza durante la Prima Guerra Mondiale sul fronte italiano) e Fernanda Pivano è componente fondamentale di quel complesso di relazioni e aspirazioni che fanno emergere scrittori geograficamente distanti (quando ancora la geografia era un concetto eminentemente fisico) in nome della grande letteratura. Pivano rievocherà il primo incontro con il Premio Nobel statunitense nella biografia “Hemingway”, pubblicata da Bompiani nel 1985: <<L’incontro con lui avvenne davanti a una quindicina di invitati, fu molto commovente: Hemingway attraversò il salone da pranzo vuoto con le braccia tese e mi abbracciò forte come sapeva fare lui, cominciando un’amicizia che durò fino alla sua morte. Il 20 ottobre 1948, dopo il mio ritorno a Torino, mi scrisse: “ti ho trovata carina e bella e anche con una buona testa per pensare. Se c’è un errore che fai, figlia, credo che sia (in letteratura) quello di accettare il combattimento con troppa facilità. Io non rispondo mai a un attacco: non do risposta. Continuo a lavorare. Il lavoro è tutto. A volte ci si arrabbia molto. Ma non rispondo mai, o meglio, ho imparato a non rispondere. Aspetto che muoiano o che abbiano torto, o tutte e due, o a volte li uccido in silenzio con una frase. Con molto affetto. Mr Papa”>>.

Gli Stati Uniti, una dimensione da esplorare, non solo attraverso i libri. Nel 1956 Fernanda organizza il suo primo viaggio negli Stati Uniti, mettendo in atto quella modalità di immersione che oltrepassa il mero accordo professionale, lo scambio canonico che intercorre tra scrittore e traduttore. Irrobustita dall’assimilazione dei classici-moderni nordamericani (oltre a Hemingway, vanno ricordati Francis Scott Fitzgerald, William Faulkner, Henry Miller), a più riprese concorrerà a promuovere il lavoro di una nuova generazione di poeti e scrittori raccolti attorno al falò della beat generation. Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti: sono loro i paladini di una ricognizione spiazzante, che non tollera ipocrisie e ambisce alle vette scoscese del sublime. Per la nostra porzione di mondo i beat sono sinonimo di rivoluzione, di smantellamento di tutto ciò che è “sistema”, “torpore intellettuale”, e Fernanda non indugia nel porsi accanto a questa offensiva vigorosa, testimone di un cambiamento culturale e sociale decisivo per la storia del ventesimo secolo.

Forse non saranno sufficienti una quarantina di traduzioni, due romanzi, svariate curatele di antologie, raccolte di saggi e memorie, un numero incalcolabile di interviste e contributi giornalistici, per mettere in secondo piano l’opera divulgativa di Fernanda Pivano elaborata in forma diretta, senza intermediari editoriali e percorsi preordinati. Sta infatti nella sua irrequietezza esplorativa, nello stupore, il contributo preminente dato all’immaginario e alla fisionomia del fare poetico e narrativo. Fernanda scopritrice di talenti, che non si accontenta di registrare le tendenze del momento, che si sposta, entra nel vortice del fermento e ne trae lezioni epocali, antiaccademiche. Fruga nelle espressioni misconosciute, approccia tendenze popolari o che diverranno tali grazie al suo tocco amorevole.

Un discorso a parte merita il suo interesse per la musica, musica popolare per l’appunto, giocata sul crinale tra sentimento e profondità. Nel 1966 Pivano scrive un articolo su Bob Dylan, naturalmente rifiutato dal caporedattore di turno, tentativo, l’ennesimo, di elargire un dono al pubblico desideroso di novità, alle anime recettive in ascolto. Fu Allen Ginsberg a caldeggiare l’incontro fra la sua amica italiana e Dylan, e le cronache narrano che, prima della cena a tre al ristorante giapponese Kikkoman Shoyu di San Francisco, un jukebox nei paraggi diffuse le note di “Mr Tambourine man” commuovendo Fernanda Pivano fino alle lacrime. Altro aggancio propizio fu quello con Fabrizio De Andrè: tra il cantautore genovese e la Pivano si consolidò un rapporto fraterno oltreché professionale, propiziato dalla preparazione dell’album del 1971 “Non al denaro non all’amore né al cielo” ispirato all’Antologia di Spoon River. La stima della Pivano nei confronti di De Andrè era incondizionata, si misurava sui livelli di genialità dei grandi autori d’oltreoceano, tanto che la stessa Pivano si infuriava quando il suo pupillo veniva definito (il più delle volte in forma svalutativa) il Bob Dylan italiano.

L’impegno di traduttrice e scopritrice di talenti illuminò l’esistenza di “Nanda” fino ai suoi ultimi mesi di vita. Consegnò ai posteri il percorso autoriale di scrittori come Bret Easton Ellis, David Foster Wallace, Chuck Palahniuk e Jay McInerney, approdati in Italia negli anni 80 e 90, ribadendo ancora una volta il suo gusto per l’innovazione e la ricerca stilistica. Anche per i giovani scrittori statunitensi di allora la leggendaria traduttrice italiana, testimone di un secolo complesso e febbrile, era un punto di riferimento, una guida a cui affidare aspettative a volte troppo grandi, a volte troppo fragili. “Grazie alla sua influenza mi trovai trasformato in un grande scrittore americano prima ancora di essere tradotto in italiano […] essere adottati da Fernanda fa un po’ paura. È difficile sentirsi degni di far parte del suo pantheon di giganti letterari.” (Jay McInerney)