La traduzione secondo Borges

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La traduzione secondo Borges

Jorge Luis Borges (1899-1986) scrisse diversi testi sulla traduzione con un gusto del paradosso, un’arguzia, un’intelligenza, che riflettono più le abilità stilistiche e retoriche del narratore – un narratore che, come sappiamo, molto spesso nei suoi racconti ha ibridato la forma narrativa con quella saggistica – che non il freddo rigore del saggista. Borges fa letteratura anche quando esprime concetti.

Qui intendiamo riportare le riflessioni di Borges sulla traduzione e l’incidenza che queste hanno avuto sulla sua opera letteraria.
Per chi volesse approfondire l’argomento, è consigliabile il saggio di Sergio Waisman Borges e la traduzione. L’irriverenza della periferia (2004), edito dalla casa editrice Arcoiris nel 2014.

Il bilinguismo di Borges

Per motivi familiari, Borges durante l’infanzia parlava due lingue: lo spagnolo e l’inglese (la lingua della nonna paterna, l’inglese Frances “Fanny” Haslam Arnett, e dell’istitutrice, anch’essa inglese, cui venne affidato). Il bilinguismo di Borges consiste nell’uso di entrambe le lingue senza che egli preferisse l’una all’altra, al punto da fargli pronunciare tali parole:

Quando parlavo con la mia nonna paterna lo facevo in un modo che poi scoprii chiamarsi inglese, e quando parlavo con mia madre o i miei nonni materni lo facevo in un linguaggio che poi risultò essere lo spagnolo”.

(Citazione da Alan Pauls, Il fattore Borges, 2004, traduzione di Maria Nicola, SUR, 2016, p. 111).

I primi libri che ha letto erano in inglese, incluso il classico spagnolo Don Chisciotte della Mancia (1605). A proposito del Don Chisciotte, Borges ricorda che quando anni dopo ha letto l’opera in spagnolo, gli è parsa una “brutta traduzione”.

Borges traduttore

Borges, tra le tante cose, è stato anche autore di alcune traduzioni.
Resta memorabile un aneddoto relativo alla sua infanzia: nel 1908, a soli nove anni, ha tradotto un racconto per bambini di Oscar Wilde (1854-1900), Il principe felice (1888). La traduzione è stata pubblicata su «El País» con la firma Jorge Borges, sicché lo scrittore è stato scambiato per il padre (che, lo ricordiamo, era avvocato e insegnante di psicologia in lingua inglese).

Ricordiamo le seguenti traduzioni (tra parentesi l’anno di pubblicazione dell’opera originale): Orlando (1928) e Una stanza tutta per sé (1929) di Virginia Woolf (1882-1941), Palme selvagge (1939) di William Faulkner (1897-1962), Un barbaro in Asia (1933) di Henri Michaux (1899-1984), e opere di Thomas Carlyle (1795-1881), Ralph Waldo Emerson (1803-1882), Herman Melville (1819-1891) e Walt Whitman (1819-1892).

Cosa pensa Borges sulla traduzione

Borges riflette sulla traduzione in diversi testi, sui quali in seguito ci soffermeremo.
Semplifichiamo qui le idee dello scrittore.
Il punto di partenza è il rifiuto della classica gerarchia tra opera principale e traduzioni. Secondo Borges non esiste un testo originario necessariamente superiore alle relative traduzioni, questo perché ogni traduzione ha una propria dignità letteraria, e soprattutto perché ogni testo nasce in un contesto, il linguaggio è generato in un determinato tempo, sicché ad esempio è naturale preferire una traduzione in quanto più vicina al mondo del lettore, al proprio tempo e al proprio contesto.

Dunque per Borges non esiste un testo definitivo ma ogni testo è mobile, soggetto a rielaborazioni.

Lo scrittore, al cospetto di una traduzione, si pone costantemente alcune domande: chi ne è autore? Di che anno è? In quale contesto è stata effettuata? Chi sono i destinatari?

Borges non apprezza le traduzioni considerate più fedeli, le traduzioni letterali, al contrario elogia quelle in cui il traduttore ci mette del suo, sia dal punto di vista stilistico che contenutistico.

Le due maniere di tradurre (1926)

Apparso sul quotidiano «La Prensa» il 1° agosto 1926, Le due maniere di tradurre fa parte del nutrito corpus giovanile che Borges, a distanza di anni, ha rifiutato. In Italia è presente nella raccolta Il prisma e lo specchio. Testi ritrovati (1919-1929), edita da Adelphi nel 2009 a cura di Antonio Melis e tradotta da Lucia Lorenzini.

Il testo inizia con il rifiuto di un cliché italiano, rifiuto che verrà ripetuto anche negli altri testi sulla traduzione: “traduttore traditore”. Borges, infatti, dichiara subito di credere nella bontà delle traduzioni letterarie.

Si sofferma poi sul linguaggio e sulla sua inscindibilità dal contesto, dal tempo, e a tal proposito afferma che “ogni generazione letteraria ha le sue parole predilette”.

Secondo Borges ci sono due specie di traduzioni: una “alla lettera”, tipica di una mentalità romantica, che induce il traduttore mirante alla veridicità “a ispessire il colore locale, a inasprire le asperità, a rendere stucchevole la dolcezza e a enfatizzare tutto fino alla menzogna”; l’altra per “perifrasi”, tipica di una mentalità classica, che spinge il traduttore a tendere alla perfezione assoluta, a rifiutare localismi e stravaganze, a ricorrere alla metafora per raggiungere la verità poetica.
Già in questo testo giovanile, Borges fa intendere di non apprezzare un tipo di traduzione troppo letterale.

Le versioni omeriche (1932)

Le versioni omeriche, testo datato 1932 (qui citato nella traduzione di Livio Bacchi Wilcock), è presente in Discussione (1932), raccolta di saggi usciti fra il 1928 e il 1932.

È qui che Borges considera quella sulla traduzione una “discussione estetica”, e nega il concetto convenzionale di “testo definitivo” – il testo originario da cui si traduce – gerarchicamente superiore alle successive traduzioni. Esistono più “abbozzi”, le traduzioni, appunto, ma anche il testo originario, tutti da considerare sullo stesso piano:

Presupporre che ogni ricombinazione di elementi è per forza inferiore al suo originale, è presupporre che l’abbozzo 9 è per forza inferiore all’abbozzo H – giacché non possono esserci che abbozzi. Il concetto di testo definitivo appartiene unicamente alla religione e alla stanchezza.

La superstizione dell’inferiorità delle traduzioni – coniata nel noto proverbio italiano – deriva da una distratta esperienza”.

A questo punto, Borges opera un confronto fra alcune traduzioni dei testi di Omero, pur non avendo potuto leggere gli originali in greco.
Riprende l’idea dei due modi di tradurre che, nel contesto delle traduzioni omeriche, corrisponde alla “discussione Newman-Arnold (1861-62)”. Secondo Francis William Newman (1805-1897) la traduzione deve essere letterale, secondo Matthew Arnold (1822-1888) i particolari vanno eliminati perché distraggono, questo per privilegiare la semplicità sintattica e di idee di Omero.

In chiusura, Borges ammette di non apprezzare la traduzione letterale, ma, soprattutto, sostiene che non gli è possibile stabilire quale traduzione sia la più fedele all’originale.

Lo scrittore argentino riporta alcuni concetti di questo saggio nella prefazione a Il cimitero marino di Paul Valéry (1871-1945), edito da Les Éditions Schillinger a Buenos Aires nel 1932.

I traduttori delle «Mille e una notte» (1933)

Il saggio I traduttori delle «Mille e una notte» (1933, qui citato nella traduzione di Livio Bacchi Wilcock) è presente nel libro Storia dell’eternità (1936).

Borges opera una comparazione tra le traduzioni dell’opera araba Le mille e una notte, di origine incerta ma nota in Egitto già dal XII secolo.

Dopo avere accennato alla famosa traduzione in dodici volumi, pubblicata dal 1707 al 1717, dell’archeologo e orientalista francese Antoine Galland (1646-1715) – “la peggio scritta di tutte, la più bugiarda e la più debole; ma è stata la meglio letta” –, Borges commenta le traduzioni in inglese dell’arabista Edward William Lane (1801-1876), pubblicata in tre volumi nel 1840 e revisionata nel 1859, e di Richard Francis Burton (1821-1890), esploratore e orientalista, pubblicata in sedici volumi dal 1885 al 1888; la traduzione in francese di Joseph-Charles Mardrus (1868-1949), medico e orientalista, uscita prima in sedici volumi negli anni 1899-1903 e poi in dodici volumi negli anni 1926-1932; infine quattro traduzioni in tedesco tra le quali la più importante è quella dell’orientalista Ludwig Richard Enno Littmann (1875-1958) uscita in sei volumi dal 1921 al 1928.

Ogni traduzione ha dei limiti: quella di Lane è troppo puritana, è epurata di molte parti ritenute inadatte ai lettori inglesi; quella di Burton è scritta in una lingua che impasta arcaismi, argot, latinismi, neologismi e parole straniere per ovviare alla povertà linguistica del testo originale; quella di Mardrus, per ovviare al problema della povertà di colori orientali dell’originale, fa registrare delle aggiunte – “si può dire che Mardrus non traduce le parole bensì le rappresentazioni del libro: libertà negata ai traduttori, ma tollerata nei disegnatori”; quella di Littmann è letterale (che per Borges, come abbiamo già visto, non è una qualità).

Nelle traduzioni trattate, Borges apprezza l’infedeltà, l’originalità, le aggiunte, la ricchezza di note. Fa notare che anche il testo arabo ha dei limiti: in esso storie antiche sono state adattate al “gusto plebeizzato, o osceno, della classe media del Cairo” (motivo per cui, paradossalmente, le epurazioni di Galland e di Lane lo restituiscono alla “redazione primitiva”).

Registriamo, infine, un timido ma significativo elogio all’interpolazione. A proposito della prima traduzione completa in tedesco, quella a opera dell’arabista Gustav Weil (1808-1889), pubblicata in quattro volumi dal 1837 al 1841, in cui il traduttore si impegna a mantenere lo stile orientale e a “supplirvi”, Borges dice: “le sue interpolazioni meritano tutto il mio rispetto”.

Dalla traduzione alla letteratura

Le idee sulla traduzione spiegano alcuni procedimenti dell’opera narrativa di Borges.

La traduzione è una forma di “narrazione parassitaria” allo stesso modo della sua scrittura: è modello delle “finzioni” (scrive Pauls ne Il fattore Borges, p. 117: “fare finzione è estrapolare un materiale già esistente dal suo contesto e inserirlo in un contesto nuovo”). Si tratta, in entrambi i casi, di scrittura di “seconda mano”, per dirla ancora con Pauls. Operazioni come la falsificazione e l’interpolazione, che abbiamo visto adottate nelle traduzioni, sono riproposte costantemente da Borges nei suoi racconti.