Narrativa e arti figurative, romanzi e dipinti, cosa leggere

150 150 BW Traduzioni

Ombre. Racconti ispirati ai dipinti di Edward Hopper” (Einaudi)

“Sapeva dipingere il silenzio” ma di certo i quadri di Edward Hopper (1822-1967) sanno anche moltiplicare brani di memoria, collegare atmosfere fino a una possibilità di racconto. Il progetto “Ombre” – curato da Laurence Block – appare quindi come una logica conseguenza dell’incontro, avvicina e compenetra fini espressivi in nome dell’arte.

Hopper compendia la modernità, con intenzione chirurgica recide vissuti e ambientazioni: dal silenzio fa comparire alienazioni, solitudini, la quiete ricolma di promesse, a affida all’osservatore la prosecuzione, forse l’epilogo della storia.

Non sappiamo se i suoi dipinti rientrino in una suggestione noir, facciano risuonare le corde del conflitto interiore, di una possibile redenzione. Innegabilmente stazionano in una dimensione intermedia in attesa di un chiarimento, come se esistesse un pericolo in agguato e, a qualche metro di distanza, la mossa successiva.

Il diner piú famoso d’America, con la sua vetrata piena di luce contro il buio della notte. Una sigaretta fumata di fronte a una finestra aperta, lasciando che il sole penetri nelle ossa. Una coppia separata da una noia invincibile. Un cinema mezzo vuoto dove una donna aspetta l’uomo che ama. Stati d’animo, l’America sottopelle, e a dar vita ai personaggi di Hopper alcuni fra i più celebrati romanzieri di Oltreoceano, fautori di una visione che oltrepassa i generi e prova a raccontare il mistero, una straziante verità.

Nell’antologia pubblicata da Einaudi, fra gli altri, Joe R. Lansdale, Stephen King, Jeffery Deaver, Michael Connelly, Joyce C. Oates, chiamati a interpretare il sentimento inesplicabile congelato sulla tela e a mettere in atto un collegamento il più possibile organico fra arte visiva e scrittura.

Scrive Laurence Block nella prefazione: «Hopper guardava con fastidio ai critici che liquidavano i suoi dipinti come semplici illustrazioni. In linea con l’espressionismo astratto, s’interessava soprattutto alle forme, al colore e alla luce, non al significato o al valore narrativo di un’immagine. Hopper non era un illustratore né un narratore. I suoi quadri non raccontano storie. Ma hanno la capacità di evocare in modo potente e irresistibile quelle racchiuse al loro interno in attesa di essere raccontare. Hopper sa fermare sulla tela un momento sospeso nel tempo – un istante con un passato e un futuro che lo spettatore è chiamato a rintracciare».

Il cardellino” di Donna Tartt (Rizzoli)

Theo Decker, l’adolescente protagonista del romanzo di Donna Tartt, rimane orfano di madre a seguito di un attentato al Metropolitan Museum di New York. Il ragazzo – anche lui all’interno del museo al momento dell’esplosione – esce illeso dalle macerie, portando con sé un dipinto amatissimo dalla donna, “Il cardellino” del pittore olandese Carel Fabritius (1622-1654). Seguiranno episodi e tappe di una vita complessa, per Theo, dapprima adottato dalla ricca famiglia di un amico, poi preso in carico dal suo redivivo padre naturale, alcolizzato e giocatore d’azzardo di stanza a Las Vegas.

Dallo sfarzo dell’Upper East Side newyorchese alla desolata periferia di Las Vegas, la segreta presenza del Cardellino (ritratto dal pittore fiammingo con una catenella che lo tiene legato a un trespolo) delinea una continuità, lo strappo della perdita e l’amore del ragazzo per la madre che, nonostante l’evento luttuoso, non si estingue.

Il quadro di Carel Fabritius, uno degli allievi prediletti di Rembrandt, è un filo rosso nell’esistenza di Theo, ma è anche una sottolineatura di come i destini umani seguano traiettorie imperscrutabili, e la chiave di accesso all’autodeterminazione sia accuratamente celata negli abissi dell’anima. La fragilità è connotazione di ogni percorso, rispecchiata dall’uccellino impossibilitato a volare, che nonostante ciò trasmette all’osservatore un’idea di dignità, di riverberazione del creato.

Il romanzo della scrittrice americana – premio Pulitzer nel 2014 – si affida alla conseguenzialità come motore e bersaglio della narrazione: anche la vita di Fabritius, come quella della madre di Theo, si interruppe tragicamente a causa di circostanze imponderabili. Infatti, nello stesso anno di realizzazione del quadro, il 1654, l’esplosione di una polveriera rase al suolo un intero quartiere della città di Deft, e il pittore, allora poco più che trentenne, figurò fra le vittime del disastro.

<<”Il Cardellino” è un libro sulla sopravvivenza e anche sulla cattività e sulla liberazione. Parla di come ci si sente quando si è imprigionati dalla propria storia, dal proprio passato. E poi volevo scrivere un libro sull’ossessione per un’opera d’arte. È un argomento che non è stato sfruttato molto in letteratura. Si possono scrivere volumi di filosofia estetica sull’argomento, ma non c’è niente come un romanzo che possa parlare di un argomento come questo in modo semplice e divertente>>. (da un’intervista all’autrice di Marco Drago).

La tavola fiamminga” di Arturo Pérez-Reverte (Rizzoli)

Allo scrittore spagnolo – membro della Real Academia Española de la Lengua, la più prestigiosa istituzione letteraria spagnola – va riconosciuta la capacità di individuare e applicare i tasselli giusti al fine di ottenere romanzi-mosaico avvincenti, insaporiti da atmosfere misteriose e personaggi ben calibrati.

«Non sono un artista, ma un artigiano delle storie. Quello che so e di cui scrivo, l’ho appreso rimboccandomi le maniche della camicia con lo zaino sulle spalle. Sul campo ho visto ciò che è l’essere umano, a volte qualcosa di straordinario, altre un essere pericolosissimo» (da un’intervista all’autore di Gabriele Santoro).

L’arte, con i suoi retroscena, e poi il gioco degli scacchi, tanto per citare non a caso due spunti narrativi collaudati, svolgono un ruolo da protagonisti nel romanzo “La tavola fiamminga”, thriller dalla doppia ambientazione, storica contemporanea.

Il quadro da cui si dipana l’intreccio ideato da Pérez-Reverte è “La partita a scacchi” di Pieter Van Huys (1519-1581), opera che – scopre la restauratrice Julia, protagonista del romanzo – cela un’iscrizione (“Chi ha ucciso il cavaliere?”) sotto al primo strato di colore. Il messaggio, in maniera inquietante, predice la sorte di uno dei personaggi raffigurati nel dipinto, Roger de Arras, cavaliere nonché amico del duca di Ostemburgo Ferdinando Altenhoffen, secondo contendente nella fatidica partita.

Mosse e contromosse alimentano un enigma lungo cinque secoli, e nei particolari, nelle vicende che compongono la biografia dei due giocatori, è possibile individuare una traccia che collega l’omicidio del prode soldato al presente.

A Julia occorre l’aiuto di esperti d’arte per dirimere l’arcano: a tal proposito contatta il suo ex fidanzato Alvaro, docente di Storia dell’Arte, e confida nella collaborazione dell’amica gallerista Mechu e di César, l’antiquario che le ha fatto da padre quando sono venuti a mancare, prematuramente, i suoi genitori. È necessario anche affidarsi a un esperto giocatore, per valutare la collocazione dei pezzi sulla scacchiera, e ciò permette l’ingresso in scena del contabile Muñoz, più a suo agio nel predisporre arrocchi e attacchi alla Regina che nel destreggiarsi nella quotidianità.

L’indagine rivelerà connessioni inaspettate, e in parallelo il dipinto – destinato a essere messo all’asta – acquisterà sempre più valore scatenando l’appetito di collezionisti senza scrupoli e lasciando dietro di sé un’imperitura scia di sangue.

Dal romanzo “La tavola Fiamminga” è stato tratto il film “Scacco matto” di Jim McBride, con Kate Beckinsale, John Wood e Sinéad Cusack.

Le storie di Matisse” di Antonia Susan Byatt (Einaudi)

Un anno dopo la pubblicazione in Italia del romanzo “Possessione”, il suo più grande successo di vendite, Booker Prize nel 1990, l’inglese Antonia Susan Byatt prende come spunto tre dipinti di Henri Matisse (1869-1954) per ideare altrettanti racconti sul corpo femminile, vissuto e posto come atto di comunicazione e indagine psicologica.

L’innesco della crisi sopravviene come una sorta di bagliore, di liberazione a cascata: nell’opera di Byatt spesso vengono messe in parallelo l’incantesimo dell’arte figurativa e della scrittura, elementi che nella raccolta “Le storie di Matisse” si coagulano e si traducono in una sorprendente mistica del quotidiano.

“Le caviglie di Matisse” – racconto che inaugura il libro – ha come protagonista una donna di mezza età al cospetto di una disturbante consapevolezza di sé; nel salone di bellezza dove si celebra l’asettico rituale decorativo, il coiffeur di grido agisce da pubblico ufficiale della realtà, provocando nella donna una catartica ribellione contro la tirannia del tempo.

Nel secondo racconto (“Lavoro d’arte”) una governante appassionata di lavori a maglia raccoglie brandelli di un’esistenza altrui, perché non è mai troppo tardi per contestare la prevedibilità, l’ordinato affastellarsi di condizionamenti e giorni in fotocopia. Nell’abitazione di due artisti la donna delle pulizie assembla materiale di scarto, racimola un supplemento di materia per tornare a sorprendersi, a generare vita.

La chiusura del libro è riservata al racconto “Aragosta cinese”: la conturbante vitalità delle donne di Matisse (il racconto prende spunto dal dipinto “Lusso, calma e voluttà”) fa da contrappunto al rapporto fra una studentessa afflitta da disturbi alimentari e un attempato professore, relatore della tesi di laurea della ragazza e accusato dalla stessa di molestie sessuali. Per valutare i fatti e discernere la colpa dal male interverrà una mentore della studentessa, capace di instaurare un dialogo che è, allo stesso tempo, riflessione interiore e atto di accusa.

Nevrosi e la precisazione di relazioni tossiche costituiscono il comune denominatore dei tre racconti, ognuno in equilibrio sul margine sdrucciolevole della doppiezza, di una corrispondenza con le pulsioni e la dimensione inconscia. È sufficiente uno sguardo, a volte, per cogliere una vibrazione, un desiderio di accoglienza inespresso, e dietro il velo di ordinarietà si compone un’armonia di forme e colori, che la scrittrice si dispone a tradurre, a far scaturire dalla pagina.

Ancora una volta l’essenza viene filtrata a partire dal caos, è uno spazio indefinibile che conduce per inerzia a una possibile verità. “Non smettere mai di prestare attenzione a ciò che ti circonda, non dare mai nulla per scontato e non aggrapparti alle tue convinzioni” sottolinea Antonia Susan Byatt, e questo approccio può ben circoscrivere e alimentare le prerogative dell’arte.

La ragazza con l’orecchino di perla” di Tracy Chevalier (Neri Pozza)

Nel 2000 approda nelle librerie italiane il romanzo che, accadimento più unico che raro, destabilizza l’immaginario legato all’arte figurativa, lo rimescola mettendone in discussione punti di riferimento e concetti di fruizione.

Tracy Chevalier, classe 1962, nata e cresciuta a Washington D.C., dopo la laurea in Letteratura Inglese inizia a lavorare nel mondo dell’editoria. Sceglie di spostarsi a Londra, dove svolge dapprima le mansioni di assistente editoriale del Dictionary of Art della Macmillan, e in seguito di editor alla St. James Press. Per le sue aspirazioni la svolta avviene a metà degli anni ’90: consapevole di voler dare maggiore spazio alla propria creatività decide di frequentare un Master di Scrittura Creativa all’University of East Anglia di Norwich, dove diventa allieva di Malcom Bradbury e Rose Tremain. Trascorre qualche anno e nel 1997 Chevalier vede pubblicato il suo primo romanzo, “La Vergine azzurra”, ambientato nella Francia del XVI secolo, opera che Neri Pozza fa uscire nelle librerie italiane nel 2004.

Ma, naturalmente, è con il secondo romanzo, “La ragazza con l’orecchino di perla”, che la scrittrice statunitense entra nell’olimpo dei campioni di vendite (70 ristampe e un milione di copie vendute), contribuendo, come si è detto, ad allargare la platea di lettori e “supporters” dell’arte.

La storia di Griet, una sedicenne che turba gli equilibri della famiglia del pittore Johannes Vermeer (1632-1675), nell’Olanda del XVII secolo, contiene gli ingredienti perfetti per soddisfare il palato di chi cerca nella letteratura svago e slanci sentimentali. Complicità e passione, dissidi e macchinazioni: nelle pagine del romanzo si celebra la finzione storica a partire dal volto iconico, enigmatico e sensuale della “Ragazza col turbante” (questo il vero nome del quadro), riprodotto e reso immortale dal pittore fiammingo nel 1665 circa. Per molti quell’espressione diagonale, vagamente maliziosa, suscita rimembranze eccellenti, fino a meritarsi il titolo di “Monna Lisa olandese”, e la consonanza di alcuni dettagli storiografici (a partire dall’incertezza nell’identificare le due donne ritratte) aggiunge suggestioni a un’alchimia già di per sé considerevole tra realtà, fantasia e verosimiglianza.

Tracy Chavalier ha dichiarato di essersi avvicinata all’arte fin da piccola, visitando con la scuola la National Gallery, e di avere in seguito accolto la seduzione della bellezza come un’occasione di risveglio, di crescita personale. <<Quando avevo diciannove anni ed ero a far visita a mia sorella, vidi un poster di “Ragazza con l’orecchino di perla” appeso al muro e me ne innamorai>>: a partire dalla folgorazione istillata da un’immagine, da un volto congelato nel tempo, si modella la sostanza della scrittura, che è indole creativa, ma soprattutto cura nei dettagli e ricerca. Un bestseller epocale, da oltre 20 anni letto e apprezzato in tutto il mondo, non scaturisce dal nulla, da un assemblaggio standard di elementi narrativi: va ricordato che Chavalier, per mettere a punto l’intreccio de “La ragazza con l’orecchino di perla”, si è applicata nello studio della pittura di Johannes Vermeer, recandosi più volte nei musei e nelle istituzioni che conservano le sue opere, come la Mauritshuis dell’Aia (“dimora” della “Ragazza col turbante”), la National Gallery, la Frick Collection e il Met di New York.