I leoni di Sicilia – L’epopea dei Florio, il successo letterario di Stefani Auci

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I LEONI DI SICILIA di Stefania Auci

I Florio vengono “da fuori”, lasciano Bagnara Calabra per cercare fortuna, per sfuggire alla miseria. L’epopea dei Florio prende il via dal 1799, quando le conseguenze di un tragico terremoto convincono i fratelli Paolo e Ignazio a trasferire i loro commerci nella vicina Sicilia. Si occupano di spezie, i due fratelli, e a Palermo (la città che li ospita) la loro intraprendenza non è vista di buon occhio. Rimangono pur sempre degli “stranieri” dei “facchini” il cui sangue “puzza di sudore”, e il disprezzo, moltiplicato dall’invidia, non può che mescolarsi al rispetto, all’ammirazione di chi riconosce in loro un talento imprenditoriale senza eguali.

Paolo e Ignazio vogliono essere i più ricchi, i più potenti: in breve tempo la loro bottega di spezie primeggia in città, identificandosi come base di partenza verso ulteriori conquiste. La rete dei loro affari si allarga di anno in anno, di generazione in generazione: i Florio fondano una compagnia di navigazione, iniziano a commerciare zolfo, aprono una fonderia, ampliano il proprio patrimonio immobiliare comprando dimore di pregio dagli spiantati aristocratici palermitani, e quando le redini dell’impresa passano a Vincenzo, il figlio di Paolo, sfide immaginifiche si stagliano all’orizzonte, per proseguire l’arrampicata nelle gerarchie sociali della città. Il giovane erede, dapprima a fianco dello zio Ignazio, riconosce inedite frontiere commerciali: il vino di casa, il Marsala, nelle cantine dei Florio viene trasformato in un nettare degno di un banchetto regale, e un innovativo metodo di trasformazione del tonno (la conservazione sottolio e l’inscatolamento) ne rivoluzionano e ampliano il consumo.

Ma l’epica dei Florio non è solo il racconto di successi e sfide imprenditoriali. Gli uomini che compongono la famiglia hanno aspettative che non sempre collimano e covano frustrazioni destinate, inesorabilmente, a emergere. L’interiorità rischia di ribellarsi a un’immagine pubblica solida, inattaccabile, perché i nemici sono tanti e non aspettano altro che un passo falso, un atto di debolezza. Il privato del nucleo familiare si regge su equilibri (sani o patologici) che le donne di casa, con le loro personalità forti, mai banali, contribuiscono a mantenere e consolidare. Madri, consorti, amiche, donne celate nel passato, sono lo specchio su cui si proietta l’anima dei Florio, le incompatibilità e le speranze che riverberano come lampi nella notte e che si affievoliscono con il sorgere del giorno. Tra i personaggi femminili tratteggiati con maestria da Stefania Auci spiccano Giulia Portinari, moglie di Vincenzo, determinata e anticonvenzionale, disposta – pur di farsi maritare – a contravvenire alle regole del senso comune, e poi la fragile Giovanna, nobile palermitana che Ignazio – erede di Vincenzo – sceglie come sposa, tinteggiando così di sangue aristocratico l’umile stirpe di bottegai.

La prima parte della saga – raccontata nel volume “I leoni di Sicilia”, oltre 700.000 copie vendute e più di 35 edizioni – si conclude nel 1868, lasciando in sospeso questioni sia relative alla cerchia dei Florio, sia afferenti alle mutazioni politiche e alle strategie per acquisire sempre più potere nei contesti nazionale e internazionale.

L’INVERNO DEI LEONI

Con “L’inverno dei leoni” (uscito nel maggio 2021, sempre per la casa editrice Nord) viene ripercorsa l’ascesa finanziaria e sociale di Ignazio, il suo concedersi a un destino scritto nel bagaglio genetico e culturale. Un’abilità innata nel crearsi amicizie e alleanze, lo porterà a realizzare un sogno mai sognato prima di allora, ovvero edificare un impero che ha come confini l’Europa e oltre. Eppure anche il grande industriale, l’uomo capace di irretire i propri interlocutori con uno sguardo, custodisce segreti, vuoti dell’anima che lo riconducono a un amore lontano, alla passione per una donna per cui avrebbe potuto rinunciare alle sue smisurate ambizioni.

Il tarlo della debolezza erode un’architettura che da fuori appare granitica. Ignazziddu, che poco più che ventenne riceve in eredità oneri e onori da suo padre Ignazio, rappresenta quel gradino sbeccato, la voce che si insinua in un’identità assegnata a priori. Di fronte a un mondo che cambia, per certi versi indecifrabile, il giovane Florio si sente disarmato, schiacciato dall’autorevolezza dei suoi avi e dalla consapevolezza di non poter essere alla loro altezza. E come se non bastasse, a perfezionare la decadenza della famiglia più potente della Sicilia, si affastellano lutti, il venir meno della buona sorte e accadimenti di portata epocale, capaci di sconvolgere il corso della Storia.

L’era di Ignazziddu è quella della Belle Époque, dell’apparenza e della piacevolezza sfolgorante, che ha pretese di elargire valore. Si tratta di incantevole e ricca vita, di progetti sontuosi e volatili, e ancora una volta a fianco di un Florio c’è una donna memorabile, Francesca Jacona della Motta di San Giuliano, simbolo del suo tempo, bella come una dea (ne fece un ritratto eloquente il pittore Giovanni Boldini) e avvezza a coltivare amicizie importanti, da Gabriele D’Annunzio al Kaiser Guglielmo II di Prussia. Tra Ignazziddu e donna Franca affiorano conflitti, tra i due scaturiscono attriti e idiosincrasie: le damazze astiose – nei salotti ombreggiati – elencano i tradimenti reiterati del marito, mentre l’ammaliante consorte si rifugia sempre più nello sfarzo, nella conta di gioielli e abiti alla moda. Ma proprio attraverso un’identità solida, pugnace, Franca accoglierà il compito che le è stato assegnato nel momento in cui ha legato il suo destino a quello di Ignazziddu. Per lei tutto non può che condensarsi nel concetto di dignità, nella compostezza anche al cospetto di un declino irreversibile, quello di una casata che dalle umili origini è arrivata a conquistare territori e mercati finanziari, affrontando a viso aperto la modernità.

Nei due capitoli della saga il lettore trova palpiti sentimentali, i colori e i chiaroscuri della Sicilia, l’intrecciarsi di vicende che raccolgono drammi personali e il fuoco dell’ambizione. Ma, naturalmente, non c’è solo questo nella ricostruzione di Stefania Auci, non basta il tocco sapiente che coinvolge e rende sostanziali i protagonisti, che mantiene vivo l’interesse, lo ammalia nonostante la corposità della trama. Dentro la brillantezza dei due romanzi, a fare da struttura portante c’è la scrittura, misurata e al tempo stesso rigogliosa, perfettamente a tono, e l’eccellente ricognizione storica, che funge da metronomo, da ossatura armonica nello spartito, lussureggiante, dedicato alla famiglia Florio. L’immaginazione prende campo nelle descrizioni accurate, di arredi, tessuti, fantasie floreali e scorci architettonici, si concentra negli sguardi dei protagonisti, nelle parole sussurrate o crudeli, negli slanci amorevoli o nelle considerazioni senza appello. Il particolare, i dettagli, lievitano fino ad allestire un mondo possibile, la realtà romanzata che testimonia un’epoca e che si connette – lungo il filo rosso della Storia – al presente e alle sue contraddizioni.

<<Quando ho iniziato a scrivere I Leoni di Sicilia, volevo raccontare la storia di una famiglia unica, dare ai Florio una nuova voce, rendere giustizia alla loro leggenda. E tracciare la loro parabola, quella di una famiglia incredibilmente ricca e potente, al centro della vita economica e culturale europea, che, alla fine, perde tutto. Nell’Inverno dei Leoni ho cercato di rispondere alla domanda più difficile di tutte: com’è potuto succedere? E ho scoperto che, come spesso accade con i Florio, la loro storia non si esaurisce nelle ‘cose’ – nelle navi, nelle tonnare e nei palazzi acquistati e poi venduti, nelle feste con centinaia di invitati, nei favolosi gioielli di Franca, nelle rombanti automobili di Vincenzo –, ma vive soprattutto nella passione che lega, nel bene e nel male, tutti loro. Perché tutti i Florio – nessuno escluso –combattono, soffrono, gioiscono, sperano e si disperano… per amore. Per un amore che prende ogni forma possibile e che è stato per me una vera guida, la luce che ha svelato la straordinaria universalità di questa vicenda così affascinante e complessa. Anche perché, come si dice in Sicilia, L’amuri tutti dicinu ch’è amaru, ma tutti vuonnu vidiri s’è veru: “Tutti dicono che l’amore è amaro, ma tutti vogliono provarlo”>>.