Pandemia e letteratura: da Ian MacMillan a David Quammen

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La pandemia come sfondo

La pandemia come sfondo, motivo per parlare d’altro, oppure la pandemia come fuoco narrativo, filtro polarizzatore della realtà. In un arco temporale vastissimo i generi si sono intrecciati (a volte sovrapposti) per accordarsi alle sensibilità, per affermare metodi e fisionomie sociali. Dalla poesia classica alla fantascienza, dall’epopea (il viaggio di redenzione) alla scrittura ibrida, alla fiction contaminata. Valori inappuntabili o passioni che assecondano la superficie, il desiderio di svago. L’infinita scia del virus lambisce scaffali antichi, di legno pregiato, o l’indeterminatezza dell’incontro fortuito, fra gli scatoloni dei bouquinistes e i cataloghi di ebay.

Come eravamo prima del virus?

Covid-19 come spartiacque, tensione e riepilogo dell’oggettività: come eravamo prima del virus? In che modo siamo cambiati? L’umanità ha individuato la traiettoria per venirne a capo? L’immagine prescelta è quella di un adolescente in cammino, la cui esistenza è segnata da un morbo, dalle procedure – impostegli da un padre premuroso – per schivarne gli effetti micidiali. L’adolescente (si chiama David) è in marcia perché la sua casa (a Buffalo, nello stato di New York) e stata ridotta in cenere, e suo padre, la sua guida, il suo centro di gravità fino a quel momento, ha commesso un’imprudenza e si è fatto contagiare da uno sconosciuto (il Viandante).

Il ragazzo ha davanti a sé quasi mille chilometri da percorrere con una bicicletta dotata di rimorchio, allo scopo di raggiungere una città ritenuta sicura, una sorta di agglomerato modulare chiamato il Complesso. A sferzare la sua intelligenza, il suo intuito, non c’è più Charlie, suo padre: David è costretto a fare a meno della sua presenza fisica, del suo sguardo rassicurante, ma non certo dei suoi insegnamenti, che sono racchiusi in un taccuino e nei forzieri della memoria.

Conoscersi, fare esperienze, misurare la propria forza, emotiva e fisica: è questo che attende David nei mesi a venire, e le turbolenze della vita si configureranno in moribondi sul ciglio della strada, gruppuscoli di predoni, uomini disillusi o pronti a tutto. C’è un motivo che rende nobile il pellegrinaggio, e non è legato all’obiettivo in sé, all’asettica architettura sociale e tecnologica del Complesso, organizzazione stratificata dove la corruzione, la fragilità mentale, possono senza alcun dubbio insinuarsi, fare breccia come un virus silente e capace di mutare. Il motivo – la modulazione del ragazzo fuggitivo – è la cicatrice, l’epidermide che si rinnova, il volo di un uccello premonitore, la necessità di incontrarsi per trasmettere saperi e mettere in comune le rispettive fragilità.

Per caso – o forse per una combinazione di geni e competenze – David si metterà a capo di una gang adolescenziale, si rinnoverà come fondatore ed emblema di una nuova era.

Aveva sentito la necessità di dare un motivo a quello che facevano, di trovare una giustificazione, così, parlando davanti al fuoco, aveva detto loro che c’era un posto dove vivevano gli uccelli, e una delle cose che dovevano imprimersi bene nella testa era che stavano cercando di raggiungere quel posto, lontano migliaia di miglia attraverso tutto il continente, quel posto dove vivevano gli uccelli, e ripeté un’infinità di volte cosa dovevano cercare di vedere e di sentire, perché, se ciò accadeva, se quel piccolo fantasma del passato decideva un giorno di rivelarsi, sarebbe apparso in un baleno davanti ai loro occhi, come una pietra scagliata secondo una traiettoria che negava la forza di gravità reggendosi in volo con le proprie forze, in un modo assolutamente inconfondibile dopo che lo si era visto una volta.

La scoperta di Virus Cepha

Per un lettore irrequieto la gioia più bella è scoprire un piccolo libro, l’antitesi del fervore, del sublime, un lavoro artigianale ben fatto, scritto a non più di tre metri dal cielo, dove la visione è accurata e allo stesso tempo straniante. Narrativa di genere, prodotti da edicola (che, solitamente, sono più di quanto ci si aspetti), storie raccolte per essere cucinate e servite su un sedile della metropolitana, in una stanza silenziosa e in penombra. La storia di David, di una battaglia contro un virus sconosciuto, l’ha scritta un americano, Ian Mac Millan, per oltre quarant’anni professore di inglese all’Università delle Hawaii a Manoa. Virus Cepha è il titolo del romanzo, scritto nel 1981 e pubblicato l’anno successivo in Italia nella gloriosa collana Urania della Mondadori, un sottobosco incantato per i patiti della fantascienza che nell’arco di sessant’anni ha fatto conoscere nel nostro paese scrittori come Asimov, Ballard, Dick, Matheson. E tra questi nomi prestigiosi fanno capolino autori come Ian Mac Millan, onesti speziali della scrittura in grado di incastonare gemme (una frase qua e là, un personaggio minore) dentro un’intelaiatura solida, congegno in cui si susseguono elementi del viaggio iniziatico, dell’epica, dell’incubo o del sogno on the road.

La peste

Nel disorientamento generato dal Coronavirus la letteratura ha fornito interpretazioni, innescato l’alchimia dell’identificazione. Necessari i riferimenti alti, il gioco ardito della metafora e dell’introspezione; esplorare le pieghe della modernità, in cui il virus è lo specchio puntato inesorabilmente verso noi stessi. Sul vetrino da laboratorio le anime inconciliabili del mondo, in una Orano assolutamente moderna, affamata e incapace di vincere il contagio. “In verità, tutto per loro diventava presente; bisogna dirlo, la peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore, infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi.” (da La peste, Albert Camus, 1947).

Ricercare un luogo idealizzato, predisporre itinerari di fuga, di sopravvivenza (la narrativa di Cormac McCarthy), contare sulle proprie forze e sull’addestramento ricevuto (il giovane David, simbolo dell’irrequietezza e della resilienza), a patto che l’epidemia non tracimi incontrollabile, assumendo i connotati della perdizione. Può accadere domani, in un futuro assoluto o forse mai. Tanto per dire… in una città imprecisata un automobilista è bloccato a un semaforo; scatta il verde ma l’uomo rimane fermo, inchiodato da una cecità improvvisa; gli automobilisti dietro di lui scendono per capire che cosa è successo, interpretano la cecità dell’uomo come una normale malattia, un inghippo di poco conto.

Inizia così (più o meno)..

Cecità di José Saramago, 1995

.. e le forme di oppressione e violenza che si susseguiranno nel romanzo (la malattia è contagiosa e anche la volontà di approfittarne è contagiosa) rappresentano il sintomo di un’inadeguatezza sostanziale, connaturata all’uomo. Se prima di ogni nostro atto ci mettessimo a prevederne tutte le conseguenze, a considerarle seriamente, anzitutto quelle immediate, poi le probabili, poi le possibili, poi le immaginabili, non arriveremmo neanche a muoverci dal punto in cui ci avrebbe fatto fermare il primo pensiero. I buoni e i cattivi risultati delle nostre parole e delle nostre azioni si vanno distribuendo, presumibilmente in modo alquanto uniforme ed equilibrato, in tutti i giorni del futuro, compresi quelli, infiniti, in cui non saremo più qui per poterlo confermare, per congratularci o chiedere perdono”.

Quindi il contagio come innesco, propedeutico all’autoanalisi. Nulla sarà più come prima, anche perché ci saranno testimoni a catalogare il passato, a raccoglierne le polveri inerti. E accanto a Saramago e a Camus – ma naturalmente è una selezione parziale, microscopica – diventa inevitabile situare Jack London con La peste scarlatta (1912), racconto post apocalittico che – in una spirale di predizioni trasversale alla letteratura – anticiperà di qualche anno la pandemia di influenza spagnola (50 milioni di morti su una popolazione mondiale di circa 2 miliardi). “Fugaci i sistemi, come schiuma. Tutta la fatica dell’uomo su questo pianeta si è rivelata altrettanta schiuma”: nell’opera dello scrittore statunitense l’anno 2013 è segnato da un’infezione letale, riconoscibile in quanto provoca una pigmentazione rossa della pelle. L’evento incommensurabile porterà all’inevitabile strascico di follia e brutalità, atti rievocati 60 anni più tardi da uno dei sopravvissuti, il professor James Howard Smith. Scrive Valerio Lento su zetaluiss.it: “Quello di London non è un giardino dell’Eden: la Peste non ha seguito alcuna Provvidenza nel decidere chi risparmiare. Uomini rozzi, incolti, violenti, donne che erano ricche e sfruttavano il prossimo, persone comuni senza alcuna dote particolare, sono ciò che resta del nuovo mondo. Che valore hanno allora la morale, l’etica, la cultura del lavoro, la solidarietà, l’impegno sociale? Agli occhi dell’autore tutto è disincanto. Anche la spensieratezza selvaggia dei giovani, che nulla conoscono di ciò che è stato, non lascia altro che l’amara consapevolezza di un ciclo destinato a ripetersi.”

Spillover

Dal morbo immaginato al morbo predetto. Nel 2012 David Quammen pubblica Spillover, un libro a metà strada fra il reportage e il saggio di divulgazione scientifica. Letteralmente spillover significa salto di specie, e sta a indicare il passaggio di agenti patogeni da una popolazione “incubatrice” a una popolazione “bersaglio”. È un meccanismo che sta alla base di moltissimi virus traslocati dagli animali all’uomo, come ad esempio l’Ebola, la Sars, la Mixmoatosi, l’Aids e il Covid-19. Quammen indaga e pone interrogativi sulle modalità di trasmissione delle malattie, compie ricerche sul campo e mette in relazione lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali con l’insorgere di patologie devastanti. La curiosità, la fame di conoscenza, lo portano a Bali, sulle tracce di un potenziale fattore infettante, in un allevamento di ratti del bambù in Cina, e poi in Australia, dove il virus Hendra si è diffuso dai pipistrelli ai cavalli e dai cavalli all’uomo, in Camerun per delineare il percorso dell’HIV-1, in una giungla del Gabon, dove “l’ospite serbatoio di Ebola era presumibilmente lì con noi, ma non l’avremmo riconosciuto neanche se ci si fosse parato davanti. Potevamo solo prendere qualche precauzione data dal buon senso.”

Quammen, in molte interviste, sottolinea come nel suo libro non ci sia nulla di profetico; il suo lavoro è l’eco di quanto gli è stato riferito, nel corso degli anni, dai virologi di mezzo mondo. “In una popolazione in rapida crescita, con molti individui che vivono addensati e sono esposti a nuovi patogeni, l’arrivo di una nuova pandemia è solo questione di tempo.”

A un anno dalla dichiarazione di pandemia dell’Oms, la scienza ha raggiunto importanti traguardi, ha dato prospettive di guarigione, di controllo del Coronavirus. La scienza, per così dire, ha fatto e continuerà a fare la sua parte. Ora tocca alle istituzioni di governo, alla politica che necessariamente dovrà ritornare a essere illuminata, imparziale e visionaria. Non più fughe della realtà, ma la misurazione, la presa di coscienza, il controllo effettivo dell’incidenza delle attività estrattive e trasformative sugli equilibri planetari. La ragione della crisi sta nel cambiamento, nel parametrare e suggerire (se non imporre) stili di vita, nel promuovere il pensiero, che è anche prerogativa dell’animo umano e della letteratura (dal semisconosciuto Ian MacMillan al poderoso Jack London, dal temerario David Quammen ai premi Nobel Albert Camus e José Saramago).