Una stanza tutta per sé | Virginia Woolf

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Una stanza tutta per sé, pubblicato nel 1929, corrisponde alla rielaborazione di due conferenze tenute dalla Woolf all’Università di Cambridge, un anno prima.

Con naturalezza mescola invenzione e realtà storiche, tratta un argomento incandescente (per gli standard dell’epoca, ma non solo…) sfoderando le armi affilate dell’arguzia e dell’erudizione. Come mettere a nudo l’inaccettabilità di una cultura plasmata dal genere maschile, come smascherare la tossicità di un linguaggio che ha dato forma al ruolo e alla significatività della donna, con attribuzioni forzate, rappresentazioni e travisamenti?

L’azione di guerriglia della Woolf

Non certo alterando la voce, sprigionando rancore e disillusione, ma percorrendo la via rigogliosa dell’ironia, della metafora imprevedibile e della visione. A partire da Oxbridge (luogo immaginario e simbolico) Woolf si inoltra nel fortino della cultura pietrificata, per lasciarne tracce irriverenti e per sostanziare l’architettura del predominio (stando appoggiata al muro, l’università mi appariva infatti come una riserva in cui si conservano quelle specie rare che si sarebbero subito estinte se lasciate a lottare per la vita sui marciapiedi dello Strand). La sua è un’azione di guerriglia: si inoltra negli stanzoni regali priva di armi retoriche, abiurando l’eloquenza, sfidando con il sarcasmo la cultura elitaria e mostrandone i difetti, la grossolanità dissimulata.

Sospende la propria identità (call me Mary Beton, Mary Seton or Mary Carmaichael) per meglio incarnare l’idolo negletto, la donna indirizzata per secoli nei ripostigli dell’ambiente domestico, ad accudire e a puntellare l’egemonia dei patriarchi.

La storia del libro

Il viaggio immaginario prosegue e dal tempio accademico Virginia Woolf si sposta a Londra, al British Museum. Si finge ricercatrice, semplicemente è affamata di verità, ma la sua autoironia – filtro meraviglioso – le fa deviare lo sguardo, per congetturare su uno studente affaticato di fronte a una pila di libri. La verità non emerge, sul perché alle donne venga impedito di autodeterminarsi, di denunciare la superficialità di chi compone disarmonie di genere. E al posto dell’eloquenza emerge la rabbia subita e rimasticata, fomentata da chi detiene potere, denaro e controllo della conoscenza (O forse è la collera, mi chiesi, in qualche modo, il famiglio, il folletto al servizio del potere?).

Con una tazza di caffè

La ricerca è in divenire, questa volta al tavolo di un piccolo ristorante, di fronte a una tazza di caffè: la scrittrice è ispirata da grotteschi articoli di giornale, i quali trattengono a fatica il tremolio della collera; sono briciole di senso comune, in grado di rivelare, in controluce, un perverso gioco di riflessi: qualunque possa essere il loro uso nelle società civilizzate, gli specchi sono indispensabili per ogni azione violenta e eroica. […] perché se lei comincia a dire la verità, la figura nello specchio si rimpicciolisce; viene diminuita la sua idoneità alla vita. Come potrà l’uomo continuare a giudicare, civilizzare gli indigeni, emanare leggi, scrivere libri, vestirsi a festa e sproloquiare ai banchetti, se non riesce a vedersi a colazione e a cena almeno il doppio di quanto è realmente?

I personaggi

Se William Shakespeare è il sublime bardo, è lecito assegnare alla sorella Judith il ruolo di donna dei suoi tempi. Judith è un’invenzione esemplare, Virginia Woolf la colloca nei pressi del piedistallo shakespeariano, a perpetuare l’egemonia della consuetudine. Avrebbe anche lei dei talenti, timidamente si accosta a qualche pagina di letteratura, ai palcoscenici per trarne scintille di magia, ma, ahimè, i tutori del suo status la ricacciano indietro, nei luoghi che le competono, a rammendare calze o a badare allo stufato, a maritarsi per convenienza altrui, perché per Judith la conquista dell’arte equivale alla corruzione, allo sfregio dei valori millenari.

Così, grosso modo, narrerebbe la storia, credo, se una donna ai tempi di Shakespeare avesse avuto il genio di Shakespeare scrive Virginia Woolf, che di seguito ci ricorda la necessità, per scrittrici dell’Ottocento come Currer Bell, George Eliot e George Sand, di celarsi dietro uno pseudonimo maschile per continuare ad assecondare la liturgia della tradizione.

Letteratura al femminile

Seppure dileggiata, contrastata secondo differenti gradazioni, la letteratura al femminile ha saputo divincolarsi, trovare i suoi spazi. Un fuoco è stato acceso e protetto con tenacia. Alla fine del Settecento, in Inghilterra, la donna della classe media inizia a scrivere, a trarre sostentamento dal cimento letterario, dall’articolazione del pensiero e dalla creatività. Senza quelle precorritrici – considera Woolf – né Jane Austen né le sorelle Brontë né George Eliot avrebbero potuto scrivere, più di quanto Shakespeare avrebbe potuto scrivere senza Marlowe, o Marlowe senza Chaucer, o Caucher senza quei poeti dimenticati che prepararono la strada addomesticando la naturale barbarie della lingua.

Grandi scrittrici inglesi

Grandi scrittrici nonostante tutto, verrebbe da dire, e in un’inquadratura ideale Virginia Woolf mette in primo piano Jane Austen ed Emily Brontë, le uniche – a suo dire – in grado di trasferire se stesse, completamente, nelle occasioni e nei personaggi dei loro romanzi. Austen e Brontë autrici di un miracolo: l’essere riuscite a scrivere senza odio, senza amarezza, senza paura, senza proteste, senza prediche, surclassando le limitazioni che – in quanto donne impegnate in un lavoro (o in un gioco) intellettuale – venivano imposte loro dai protocolli di comportamento, da un’autorità esteriore.

Il commento

Una stanza tutta per sé ha un andamento sinuoso, volutamente dubitativo, come se non esistesse un’evidenza plausibile a confermare le parole, le tesi enunciate. Un andamento nuovo, tutt’oggi nuovo, irriverente rispetto all’impeccabilità accademica. Virginia Woolf scrive dal profondo, di argomenti per lei vitali – letteralmente vitali – e nonostante ciò si mostra incompleta, sfaccettata, beffardamente arrendevole. Una rendita fissa e un posto dove scrivere in santa pace: da un’omogenizzazione del pensiero, che è anche un contare sulla complicità del lettore, prende vita un romanzo-saggio imprescindibile, pietra angolare di ogni costruzione letteraria riferita alla questione femminile, alla collosità del potere e al conformismo che ne deriva.

Da aggiungere: Virginia Woolf scrive da regina, svicolando stile e pose convenienti; ogni riga di Una stanza tutta per sé è necessaria, nettare brioso, l’indubitabilità di trovarsi al cospetto di una fuoriclasse della narrazione diventa quasi un esercizio infantile.

Una citazione

Dovrei supplicarvi di ricordare le vostre responsabilità, di essere più elevate, più spirituali; dovrei ricordarvi che molto dipende da voi, e che potete esercitare una grande influenza sul futuro. Ma possiamo senz’altro lasciare queste esortazioni all’altro sesso, che le esprimerà, e a dire il vero le ha espresse, con molta più eloquenza di quanto io possa essere capace. Se frugo nella mia mente, non riesco a trovare alcun nobile sentimento che riguardi l’essere compagni e uguali, e il guidare il mondo verso scopi più elevati. Mi ritrovo a dire, brevemente e prosaicamente, che essere se stessi è molto più importante di ogni altra cosa.