Le traduzioni delle poesie di Emily Dickinson

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Emily Dickinson nel dagherrotipo ripreso fra il 1846 e il 1847, restaurato nel XXI secolo

Più che in altri ambiti di scrittura la poesia tende a eludere il mero aspetto formale. E ancor più nella traduzione il senso è intimamente collegato alla sensibilità dell’autore, al segreto custodito nelle parole e nel ritmo. Non quindi riproduzione, ma lavoro di introspezione e assimilazione.

Il corpus completo dell’opera di Emily Dickinson consta di 1775 liriche, e solo una piccolissima parte di esse fu pubblicata con la poetessa statunitense ancora in vita. Un destino in parte subito, in parte conquistato, e dobbiamo a Thomas H. Johnson la realizzazione – nel 1955, a settant’anni dalla morte di Dickinson – dell’edizione critica che rivelò al mondo una voce implacabile e limpidissima. I suoi versi, espressione di un’esistenza appartata, eppure così armoniosa e presente, testimoniano un’assidua ricerca formale e un travaglio che la parola alimenta e prova a lenire. L’accento cade sulla pratica meditativa, tesa ad agguantare il pulviscolo, le istanze volatili della poesia.

Per quanto riguarda l’Italia vanno segnalati, come eventi rivelatori, alcune traduzioni di Giacomo Prampolini pubblicate nel 1933; l’uscita sei anni più tardi di un saggio ad opera di Giuditta ed Emilio Cecchi con poesie citate in inglese e tradotte in nota; la prima cernita di liriche con testo originale a fronte, curata da Margherita Guidacci nel 1947. Negli anni a seguire le traduzioni di Dickinson compariranno con una frequenza sempre crescente, fino al Meridiano Mondadori edito nel 1997, che raccoglie l’intera produzione della poetessa di Amherst (traduzioni di Silvio Raffo, Massimo Bacigalupo, Nadia Campana, Margherita Guidacci; “Versioni d’autore” con saggi di traduzione di Montale, Montale-Cima, Giudici, Luzi, Amelia Rosselli e Cristina Campo; un saggio introduttivo e cronologia dell’americanista Marisa Bulgheroni).

Una particolare sottolineatura merita il lavoro di traduzione di Giuseppe Ierolli, per certi versi ciclopico, filone aureo che permette di esplorare Emily Dickinson da differenti angoli di visuale. Per circa un decennio lo studioso ha “abitato” il mondo della poetessa americana, giungendo a tradurne l’intera opera, comprendendo materiale epistolare e frammenti in prosa. Alle traduzioni, inoltre, si sono affiancati commenti e considerazioni sulle opzioni linguistiche, oltreché citazioni tratte dalla bibliografia dickinsoniana e uno stratificato apparato di note e informazioni. Tutta l’opera di accertamento e diffusione di Ierolli è disponibile sul sito www.emilydickinson.it

Molteplicità e poi densità, un messaggio sotto pressione, da maneggiare con perizia, in grado di sublimare o dissanguare la verifica interpretativa. Un paesaggio sublime e scosceso, quello ideato dalla grande poetessa. Scrive Marisa Bulgheroni: le sue sperimentazioni grammaticali, le sue obliterazioni sintattiche, l’anomala densità delle sue metafore fanno di quasi ogni suo testo un enigma la cui soluzione, unica e depositata nel testo stesso, non è dato conoscere che per approssimazione o, al contrario, per divinazione, per distanziamento o per immersione” (da www.cristinacampo.it).

Nelle varie traduzioni si esplicita questa doppia linea di avvicinamento: un affidarsi al significato letterale, senza togliere o aggiungere nulla, o in alternativa sperimentare un processo immersivo, di scavo e fermentazione del linguaggio. In entrambi i casi affiora, come sorgente primaria, la necessità di accogliere la parola e le sue rifrazioni, l’intenzione che attraverso di esse si accosta all’umano e all’alterità.

Afterlife del testo lo definisce il poeta Franco Buffoni, processo di avvicinamento teso a mantenere, cogliere e trasmettere il messaggio originale. E nello sviluppo conoscitivo – di scavo e perlustrazione – il lavoro del traduttore – esposto alla vertigine dickinsoniana – conduce verso l’illuminazione di spazi reconditi, psiche e sensi a determinare un approdo.

To tell the Beauty would decrease
To state the Spell demean
There is a syllable-less Sea
Of which it is the sign
My will endeavors for its word
And fails, but entertains
A Rapture as of Legacies –
Of introspective Mines –

Raccontare la bellezza significa svilirla,
Definire l’incantesimo intaccarlo;
C’è un mare senza sillabe
Di cui bellezza e incanto sono segno.
Con la volontà mi sforzo invano
Di ricreare la parola giusta,
Ma sempre poi me la rapiscono
Miniere di pensieri introspettivi…

(traduzione di Franco Buffoni)

Le riflessioni donateci da chi ha tradotto le poesie di Emily Dickinson fanno emergere la zona d’ombra tra dato testuale e linguaggio. La stanza della poetessa, i pochi metri che separano lo scrittoio dalla finestra, e la planimetria della creazione, sono per certi versi una galassia evanescente, dove non esiste legge di gravità e dominio del reale.

Linea d’ombra, come riferimento spaziale, e sospensione in quanto verifica del tempo, armonia dell’attesa. L’utilizzo della punteggiatura (la lineetta, ad esempio, ponderazione e trampolino galattico) scompigliano regole e aspettative, consigliano al lettore un guizzo verso l’ignoto. Impossibile non raccogliere la sfida, non abitare i vuoti disseminati lungo il cammino; in alternativa si percepisce l’emanazione regolare, equilibrata, la melodia della superficie. Musicalità, palpito, ma l’incontro con una delle figure più rigogliose della poesia moderna è anche asprezza, determinazione provvisoria. Calibratura della sintassi: ogni tentativo di espressione è fatidico, richiede misura e la giusta modulazione; un vagare lungo i margini assiduo, luce fioca in prossimità di un bagliore.

There is a solitude of space
A solitude of sea
A solitude of Death, but these
Society shall be
Compared with that profounder site
That polar privacy
A soul admitted to itself—
Finite infinity.

C’è una solitudine di spazio,
una solitudine di mare,
una di morte, ma
faranno lega tutte quante
a paragone con quell’estremo punto,
quella polare ritrosia
di un’anima ammessa a se stessa.
Finita infinità

(traduzione di Mario Luzi)