Le canzoni di Sanremo che hanno cambiato la storia

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Perché Sanremo è Sanremo

Odiarlo o amarlo, impossibile ignorarlo. Qualsiasi argomento si accosti al Festival di Sanremo rischia di venir risucchiato nel gorgo delle convenzioni, delle elaborazioni a prescindere. Specchio del Paese, Valvola di Sfogo, Messa Laica degli italiani: le interpretazioni sono un esercizio senza fine per sociologi e retroscenisti della peculiarità italica, colpi a salve inadeguati a smuovere, di un solo millimetro, il monolite sanremese. La genialità, il talento che regge alle conferme del tempo, ne hanno lambito la sostanza, l’intima ragion d’essere: artisti riverenti o impudenti, che di rimbalzo hanno lasciato un segno indelebile sulle tavole marmoree del Festival della Canzone.

Domenico Modugno – Nel blu dipinto di blu (1958)

A sette anni dalla prima edizione, sul palco del Casinò Municipale di Sanremo sale Domenico Modugno da Polignano a Mare, ed è subito leggenda. Le braccia spalancate, in un gesto che evoca accoglienza, ma anche una virile consapevolezza. Nei pronostici primeggia la cantante di tutti, Nilla Pizzi, con un brano nonostante tutto memorabile, L’Edera; ma siamo agli albori degli anni ‘60 e i riverberi di un nuovo sound, uscito dal crogiolo di tradizioni e aspirazioni germinate Oltre Oceano, raggiungono i litorali del Bel Paese. Nel blu dipinto di blu ha la potenza di un ariete contro le porte blindate del bel canto: trionfa nel tempio della melodia per proiettarsi, di slancio, nella storia dello spettacolo e del costume italiano. Ma non solo: Modugno si appresta a diventare Mister Volare, contribuendo (con oltre 20 milioni di dischi venduti) a modellare un’identità musicale al passo coi tempi.

Adriano Celentano – 24000 baci (1961)

Se Modugno propone un cambiamento, Celentano completa l’opera, entrando nel corpo del rock and roll e facendo esercizio di assimilazione e rielaborazione. 24000 baci e il suo interprete sono la versione made in Italy di un terremoto prossemico, ancor più che musicale. Ma Adriano Celentano ha anche dalla sua un’arma vincente e rarissima: l’originalità. Da un impatto cosmico tra Chuck Berry e Jerry Lewis si materializza a Sanremo il presente e il futuro della musica leggera italiana. Talento vocale, fisicità, e per completare l’opera il Molleggiato esegue la prima parte del brano volgendo le spalle al pubblico, una scelta che vale mille tatuaggi e altrettanti outfit “vedo-non vedo”. L’Italia imbocca gli anni del boom economico e del successivo disinganno: si classificherà secondo il rocker della Via Gluck, preceduto dal super classico Luciano Tajoli, e il mancato trionfo – a cui seguiranno oltre 5 settimane in vetta alle classifiche di vendita – testimonierà il fatto che le rivoluzioni – nella musica ma non solo – raramente conducono a un rovesciamento delle consuetudini.

Lucio Battisti – Un’avventura (1969)

Per Lucio Battisti l’apparizione all’edizione numero 19 del Festival non fu solo un’avventura. Infatti, la consapevolezza di poter affrontare senza timori reverenziali il palco del Casinò Municipale, lo convinse ad abbandonare definitivamente i panni di autore per vestire quelli di interprete delle proprie canzoni. Dopo il nono posto conquistato – si fa per dire – nel 1969, il binomio Mogol-Battisti non si concederà altre partecipazioni alla kermesse, eppure quella ritmica incalzante, la compattezza armonica e l’andamento smaccatamente rhythm and blues del brano stabilirà un modello definitivo, che negli anni a seguire influenzerà la musica leggera italiana, e di conseguenza quella di derivazione sanremese. Un’avventura segue un filone, è una sorta di modulo che permette di integrare il testo di Mogol – classico e lineare – alla libertà espressiva e alla timbrica, inusuale per l’epoca, di Lucio Battisti. Anche Wilson Pickett prestò la sua voce alla canzone, in un flusso che attraverso Modugno e Celentano omaggiò e riconobbe la lezione dei grandi blues man d’Oltreoceano. Forse nulla di nuovo e di destabilizzante: ma a dare la misura della centralità dell’esibizione – con un Battisti ventiseienne rapito dal riff dei fiati e dalla linea di basso – il presentimento, palpabile, di trovarsi al cospetto di un’immortale della discografia italiana.

Rino Gaetano – Gianna (1978)

In un’Italia di piombo la divisa sanremese di Rino Gaetano (cappello a cilindro, frac da orchestrale, scarpe da tennis e ukulele) diede respiro alla creatività, all’attitudine nonsense. Nel 1978 il calabrese trapiantato a Roma, artisticamente parlando, fece il botto: proponendosi come uno stralunato cantastorie riuscì nell’intento di scandalizzare con il gioco linguistico, con una personalità accattivante e con un’ironia calibrata al millimetro. Al Festival del 1978, cantando Gianna, arrivò terzo a sorpresa, bussando alle porte degli italiani con finto garbo e scuotendoli amabilmente con un ritornello memorabile, spiazzante e sfrontato quanto basta: ma la notte la festa è finita, evviva la vita, la gente si sveste, comincia un mondo, un mondo diverso, ma fatto di sesso, chi vivrà vedrà. Dopo quell’esibizione, a Rino Gaetano resteranno soltanto tre anni di vita (morì in un incidente stradale il 2 giugno del 1981), dipartita prematura che ne alimentò per sempre il mito, l’aura di geniale interprete dei nostri peggiori pregi e migliori difetti.

Vasco Rossi – Vado al massimo (1982)

Uno dei cliché più abusati del contesto sanremese sottolinea come l’essere relegati in fondo alla classifica finale sia il preludio a una sfolgorante carriera. In linea generale si tratta di un falso storico, appena scalfito da una manciata di interpreti, che a partire dall’insuccesso hanno spiccato prepotentemente il volo. Fra questi c’è Vasco Rossi, che il 29 gennaio del 1982 lasciò poco più che indifferenti gli spettatori schierati sulle poltroncine rosse del Teatro Ariston di Sanremo. Cantava Vado al massimo il cantautore modenese, e forse nessuno fra quegli spettatori aveva ben presente il curriculum canoro di quell’irregolare in giacchetta di pelle, in grado di vantare la composizione di brani che diverranno, col tempo, pietre miliari del comparto canoro italiano (ci riferiamo a Jenny, Albachiara, Colpa di Alfredo, Siamo solo noi). Quando parliamo di Vasco Rossi parliamo di vocazione: l’essere rock a modo suo, senza forzature, affrescando una solida struttura cantautorale con le pulsioni di basso, chitarra e batteria. In una sola parola: inimitabile. E tra i colori sgargianti e la plastica tipicamente anni ‘80 quel tipaccio arruffato, in fondo tenero e malandrino, con Vado al massimo declamava un’orazione a un paese imperfetto, convinto, a torto o a ragione, di andare a gonfie vele.

Enzo Jannacci e Paolo Rossi – I soliti accordi (1994)

Anno tellurico il 1994. L’implosione del sistema politico, che sembra ricalcare un canovaccio shakespeariano, apre le porte all’era della governance fai da te, dell’imprenditoria cannibale. È Milano l’epicentro dello sconquasso, e guarda caso il capoluogo lombardo ha risorse e spirito per delineare, con allegorie e sarcasmo, quanto avviene nelle anticamere del potere. Comicità lunare, un po’ cialtronesca un po’ disincantata, che dal dopoguerra in poi ha radunato a sé interpreti di talento, fra loro anche un futuro Premio Nobel. Enzo Jannacci e Paolo Rossi, l’uno fondatore, l’altro degno erede di quella tradizione, non possono lasciarsi sfuggire l’occasione per sottolineare una deriva, un futuro prossimo. Presentano a Sanremo I soliti accordi, una canzone da osteria (e sappiamo quanta verità alberghi nei luoghi di mescita…) capace di smascherare il regnante futuro con le armi dell’impertinenza. Cantano, riferendosi ovviamente anche a Silvio Berlusconi: “in fondo alla strada / ci son tre ladroni / sembravano onesti sembravano buoni / eran solo furboni. Il primo gridava / Forza Italia!“. Naturalmente ai due venne sconsigliato di citare il partito simbolo della Seconda Repubblica e Jannaccì si inventò lì per lì delle variazioni in salsa situazionista (“Forza Thailandia!”, persino “Viva Pippo Baudo!”). Dal proscenio di Sanremo fantasia di nuovo al potere, in mancanza di senso delle istituzioni e in presenza dei soliti (e inevitabili) accordi.

Afterhours – Il paese è reale (2009)

Fu Paolo Bonolis, direttore dell’edizione numero 59, a insistere perché i paladini del rock alternativo italiano si presentassero in gara a Sanremo. E per Manuel Agnelli e la sua band il rischio di bruciare la propria credibilità dopo anni di ricerca artistica era altissimo. È risaputo: i fans possono essere linfa vitale ma anche accaniti inquisitori a fronte di una virata musicale, di un progetto di difficile interpretazione. Eppure gli Afterhours non si concessero alle malie della comfort zone: con Il paese è reale nella Città dei Fiori (com’era facilmente prevedibile) non fecero molta strada, ma in compenso gettarono le basi perché un grande strumento di visibilità come il Festival accogliesse (anche solo in dosi omeopatiche) le istanze di un’espressività al di fuori degli schemi rassicuranti della tradizione. “C’è una strada in mezzo al niente / Piena e vuota della gente / E non porta fino a casa / Se non ci vai tu” recita il testo della canzone, e suona come un invito ad allargare gli orizzonti, a lasciare da parte atteggiamenti snobistici e autoreferenziali. Musica leggera ma per niente volatile; quella degli Afterhours non fu soltanto un’occasione: a suo tempo accompagnò un progetto a largo respiro, che si articolò in molteplici appuntamenti – musicali, culturali e di carattere sociale – e in una compilation di 19 artisti desiderosi di proporre contenuti innervati a una dimensione (e a un paese) autenticamente reali.