marina cvetaeva

La principessa guerriera | Marina Cvetaeva (Sandro Teti Editore)

300 426 BW Traduzioni

MARINA CVETAEVA
LA PRINCIPESSA GUERRIERA
a cura di
Marilena Rea
postfazione di
Monica Guerritore

Scritto in condizioni di indigenza nel 1920 e – aggiunge Marilena Rea nella prefazione – tra memorie tracciate febbrilmente nei diari e nelle lettere, guerra civile, mercato nero, un marito al fronte e la morte della piccola figlia Irina, La principessa guerriera corrisponde a ciò che Cvetaeva intendeva come personale “linea russa”, vale a dire l’espressione (incendiaria) della tradizione popolare folclorica e fiabesca.

Le origini

Il poema segue le tracce delle leggende inserite dall’etnologo Aleksandr Afanas’ev nel volume Narodnye russkie skazki, raccolta capace di riassumere la sostanza mitologica della tradizione; fiabe e racconti mai pubblicati, esistenti fino ad allora in forma orale, che colpirono profondamente l’immaginario di Cvetaeva.

La principessa guerriera – opera pubblicata per la prima volta in Italia da Sandro Teti Editore, con la traduzione di Marilena Rea – ha come protagonisti lo Zar ubriacone, la Zarina di seconde nozze, lo Zarevič e la protagonista assoluta, la Zar-fanciulla, la principessa guerriera, allo stesso tempo donna e re.

Di proporzioni smisurate, la Zar-fanciulla ha in sé le prerogative del Sole; è inavvicinabile e il fuoco è l’elemento che la determina, accompagna e rappresenta. Guardo la criniera dei tuoi ricci, guardo la fiamma dei tuoi occhi: non mi sembri nutrita dal mio latte, ma dal sangue di leonessa selvaggia!
Androgina, eretica e indomabile, in sella al suo Cavallo-Vortice, sventola il vessillo della ribellione, lo stesso che ispirerà l’esistenza di Cvetaeva, esule e figlia reietta in un affastellarsi di approdi e ripartenze, asprezze e fervore esistenziale.

Nel senso comune, poesia e storia

Nel complesso l’architettura de La principessa guerriera è un’ardita capriola del senso comune, la negazione della gerarchia originaria: ribaltando le aspettative – che celebrano il principe conquistatore – la Zar-fanciulla solca i mari sul suo Vascello di Fuoco per avvicinarsi al giovane sposo (lo Zarevič), individuo di carattere impalpabile, remissivo, dai chiaroscuri lunari (Che reggente sarei per voi, e che eroe valoroso sarei? Io, musicastro petto-stretto, io di nulla m’intendo!).

Il giovane subisce un incantesimo (che gli impedisce di amare l’eroina del poema) e la presenza (lo struggimento d’amore) della Zarina, la Matrigna, un coacervo caratteriale che trae nutrimento dalla magia, dall’oscurità inenarrabile. Ed esattamente nell’oscurità vive la crudele e appassionata Matrigna, dentro un labirinto sotterraneo, circondata da lavoranti, cantatrici e da un servitore fattucchiere. Il trasporto che prova la Zarina per lo Zarevič è categorico e rivela un equivoco desiderio di sottomissione (Scorticami pure viva! Dammi in pasto ai cani! O vuoi che ti meravigli con una trottola a sonagli?).

Sempre nella dimensione ctonia, in una cantina miserevole, è appartato il vecchio e delirante Zar, fautore di visioni alcoliche e frantumazioni che gli si ritorceranno contro: la Russia-Rossa metterà in scacco lo Zar e il servilismo della Corte, reclamando il proprio posto nel teatro delle crudeltà.

Lo Zar contadino deve saggiare i nostri crampi –
ti squarteremo, Zar-Zanzara, quella pancia che hai!

– Ma che squartare, zoticoni, che scucire?
La carne dello Zar, non lo sapete?, è sacra!
Oppure non vi prostrate alle legge divina?
– Ma i tuoi preti sono nei boschi a bivaccare!

– Sragionate, canaglie, io sono di sangue blu!
– E adesso il tuo sangue succhieremo
dalle vene, così finalmente capirai anche tu:
la stirpe sarà diversa, ma il sangue è lo stesso!

– Ehi, cortigiani, consiglieri, paggi,
ciambellani, cuochi, servitori!
Che fine avete fatto tutti quanti?
– La tua corte, Zar, è dei diseredati!

In piazza, dove c’era il baldacchino
già abbiamo allestito il tuo patibolo.
Già stanno urlando: «Fuori il cane!
Una stretta – e vola via quella zucca!».

Il segno primigenio di Zar-fanciulla è l’impossibilità di celebrare l’incontro, la distanza incolmabile fra Sole e Luna e la tensione che da essa origina. Dov’è il senso della storia? In lei, la Guerriera, e in lui, lo Zarevič, ma anche nella tragedia del mancarsi: l’amore è un passarsi accanto… Il mio Zarevič non sa amare nessuno, lui ama solo la gusla* (Marina Cvetaeva). Il poema – scrive ancora Marilena Rea – è un’orchestrazione polifonica dei tanti personaggi interiori di Cvetaeva: lo skazitel’ (il cantastorie popolare), le voci dei protagonisti dietro cui agiscono personaggi-ombra, le voci della natura (squalo, balena, uccelli, mare, vento), il popolo da Corte dei Miracoli.

La vita

Cvetaeva nacque nel 1892 in una famiglia di intellettuali, da cui trassero linfa i suoi primi cimenti giovanili: versi, prose e testi teatrali, l’approccio alla musica (la madre fu allieva di Rubinstein) e all’arte (il padre, filologo e professore di storia dell’arte all’università di Mosca, fondò il Museo Puškin). A 16 anni, in totale autonomia, si recò a Parigi per seguire i corsi di letteratura francese antica alla Sorbona, ma nonostante questa attitudine all’esplorazione intellettuale non riuscì mai a concludere un percorso di studi regolari.

Nel 1922 raggiunse all’estero il marito Sergej Efron, che dopo la Rivoluzione di Ottobre si era unito ai reazionari dell’Armata Bianca. Prese forma così – in diverse città europee – il mirabolante cammino letterario di Cvetaeva, caratterizzato dall’eclettismo e dall’innata curiosità verso l’umano e le sue articolazioni: si dedicò alla poesia, al dramma storico, alla saggistica, si appropriò degli stilemi della tradizione popolare e del mondo classico, diede vita a uno straordinario scambio epistolare con (fra gli altri) Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke.

Nel 1939 Cvetaeva tornò in Unione Sovietica accompagnata dal figlio Mur, per ricongiungersi con il marito e la figlia Alja. Nella sua terra d’origine la poetessa era riconosciuta solo per le opere giovanili, e l’indifferenza che fu costretta a subire – visti anche i tempi plumbei che si prospettavano – rese il dinamismo degli anni dell’esilio un amaro e avvilente ricordo. La fine delle aspirazioni letterarie, della tensione creatrice, coinciderà con il tragico smembramento del ritrovato nucleo familiare: all’inizio del conflitto Marina e Mur (dopo la condanna al confino di Alja e la fucilazione di Sergej) verranno sfollati nel sud della Russia, dove la poetessa, prostrata dall’indigenza e dal senso di spaesamento, deciderà di togliersi la vita nell’agosto del ’41.

* strumento a corde derivante dalla lira bizantina