Mieko Kawakami
Vincitrice del premio Akutagawa, il più prestigioso riconoscimento letterario giapponese, Mieko Kawakami (1976) si è meritata le lodi del “mito” Haruki Murakami, fratello maggiore (se così si può dire) dei narratori contemporanei del Paese del Sol Levante.
«Non potrò mai dimenticare il senso di puro stupore che ho provato quando ho letto per la prima volta “Seni e uova” di Mieko Kawakami. Mi ha lasciato senza fiato»: il riferimento di Murakami al romanzo di esordio di Mieko Kawakami (che in precedenza aveva dato alle stampe una raccolta di poesie e una novella) sigilla un valore letterario innegabile, ma anche l’audacia nel proporre vicende e temi che nel Giappone del terzo millennio risultano ancora tabù, o perlomeno macchiati dal pregiudizio. La trama del romanzo (successo letterario in Giappone, con 250.000 copie vendute) vede intrecciarsi il percorso intimo e sociale di tre donne, i loro convincimenti e i retaggi (alimentati dal maschilismo) che li rendono “problematici”. “Seni e uova” (pubblicato in Italia da edizioni e/o) parla di autodeterminazione, della scelta di Makiko di farsi mettere delle protesi estetiche al seno, dell’impossibilità di Midoriko, sua figlia, di accettare questa decisione, e del travaglio personale di Natsu, angosciata dalla prospettiva di invecchiare da sola e pronta a superare scogli burocratici e convenzioni per poter generare un figlio tramite la fecondazione assistita.
Traspare una ferma consapevolezza nelle pagine del romanzo, la visione di un paese che semina e miete contraddizioni, che si misura con le impalcature ideologiche del passato, con un presente liquido, indistintamente globale. Persone e mondi, i crucci quotidiani e una città feticcio descritta con amore, con la giusta misura: la Tokyo di Mieko Kawakami è la versione in filigrana di una metropoli immaginata, che staziona in un album tridimensionale sfogliato per comodità. Dentro ruoli assegnati, nelle pieghe del pittoresco, si muovono personaggi reali, teneri nel confessare le proprie nudità psicologiche, pronti ad affrontare la burrasca pur di approdare al cambiamento, a un’emancipazione definitiva. L’essere donna raccontato da Kawakami è musicale, accoglie vibrazioni stridenti, di una società patriarcale, e pone l’accento sulla possibilità di resettare i codici morali, di creare un ecosistema personale, spudoratamente umano. «La maggior parte delle donne tende a dare priorità assoluta al giudizio altrui anziché al proprio riducendosi a un mero oggetto. I social esagerano ed enfatizzano molti aspetti della realtà. Esasperano le emozioni, ne alterano la genuinità e rendono ansiosi e inquieti. Ma non vanno demonizzati. L’importante è che i giovani si rendano conto che si tratta di un mondo perlopiù virtuale, che è possibile spegnere schiacciando un tasto. Là fuori esiste anche il vecchio e meraviglioso mondo di sempre.» (da un’intervista di Luca Mastrantonio alla scrittrice).
Oltre a “Seni e uova” (la cui edizione italiana del 2020 risulta notevolmente ampliata rispetto alla versione originale del 2008), di Mieko Kawakami è stato pubblicato in Italia il romanzo “Heaven” (sempre da edizioni e/o).
Haruki Murakami
“Norwegian Wood”, “L’uccello che girava le viti del mondo”, “Kafka sulla spiaggia”, “1Q84”, “Tokyo blues”: bastano pochi titoli per far venire alla mente il culto, la produzione letteraria che sconfina nei territori dell’imperitura riconoscibilità.
Haruki Murakami (1949) deve la sua notorietà a ciò che riesce a comunicare con la scrittura, ma non è da escludere che il suo posizionamento nell’empireo della narrativa mondiale sia dovuto, in particolar modo, alla chimica delle esperienze, dei combattimenti ingaggiati con la vita. Letteratura e vita, un binomio in penombra che in casi particolari può sfolgorare, tradursi in incanto: l’irrequietezza giovanile, l’amore per gli outsiders noti e meno noti, l’ossessione per il cinema (si laurea nel 1975 con una tesi sull’idea del viaggio nel cinema americano), le sfide improbabili e cocciutamente romantiche, come quella di aprire a Tokyo, a soli 25 anni, un jazz bar che prende il nome di “Peter Cat”, in onore di un felino affidato a un amico qualche anno prima. Nel locale (un bugigattolo senza finestre, spartano, tappezzato da fotografie di gatti) Murakami mette in scena il mondo che gli aggrada, fatto di musica, di cocktail riveduti e corretti, di avventori bramosi di confidarsi al bancone, e al centro della scena inizia a elaborare vicende, a immaginare dialoghi stralunati, a fare apprendistato da scrittore. Un perenne sorprendersi è alla base della biografia di Murakami, dolci deviazioni e pirotecniche complessità: professore associato all’Università di Princeton, dal 1991, poi in California, all’università William H. Taft, e a seguire – dieci anni più tardi – la passione per la corsa (suggellata dalla partecipazione a una trentina di maratone), il sogno di tradurre Il grande Gatsby in giapponese, il succedersi di primati di vendite (“Norwegian wood”, nell’anno di uscita, vende due milioni di copie), l’accumularsi di premi letterari (tra cui il Franz Kafka, in passato assegnato ad autori come Philip Roth, Harold Pinter ed Elfriede Jelinek). La realtà trafitta, una visione obliqua dei destini comuni: i personaggi dei romanzi di Murakami immancabilmente sorprendono, galleggiano in una dimensione fra la concretezza e il sogno; cercano la salvezza, che può essere solo interiore, senza prendersi troppo sul serio e flirtando con il surreale. <<Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l’andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra con il dio della morte prima dell’alba. Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. È qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l’unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto, e chiudendo forte gli occhi per non far entrare la sabbia.>> (da “Kafka sulla spiaggia”).
Furukawa Hideo
Eclettico, inafferrabile, i molti interessi di Furukawa Hideo (1966) a comporre una road map flessuosa, imprevedibile, l’attitudine a sperimentare e a voltarsi, quando è il momento, per fare tesoro delle sorgenti classiche. Può essere definito un intellettuale famelico, Furukawa Hideo, un battagliero osservatore del nostro tempo e delle radici a cui il presente si abbevera.
Il suo periscopio sensoriale, inizialmente, si direziona verso la drammaturgia, in particolare verso l’opera di Shimizu Kunio; all’età di 25 anni ha già all’attivo la stesura di 30 opere teatrali, materiale che fornirà le basi per un’architettura di pensiero fluida e accludente. In una parola “curiosità”: per qualche anno si occupa dell’ideazione di videogiochi, con sullo sfondo la passione per la musica industrial, per la band inglese Psychic TV, fino alla pubblicazione del suo primo romanzo, nel 1998. Da un’ispirazione mediata dalla forma autobiografica, Furukawa Hideo trasla (a partire da “Tokyo Soundtrack”, opera pubblicata nel 2003) verso un’attitudine più estesa, disponibile alla sperimentazione. L’era del caos finanziario e sociale, delle roccaforti identitarie in dismissione, genera e supporta letterature ibride, che compendiano voci dissonanti e altrimenti flebili. Furukawa – con piglio virtuoso – in “Tokyo Soundtrack” disegna una megalopoli respingente, dove la natura è in subbuglio e la politica non è più in gradi di riconoscere la collera, la frustrazione, i prodromi della rivolta. Reale e ipotesi del reale: nel conglomerato distopico tre ragazzi rivendicano la loro diversità, il potere e la gratuità dell’immaginazione.
Il “progresso capestro” (copyright Andrea Zanzotto), l’interazione tecnologia-natura, la sessualità come surrogato dell’anima, le dinamiche sociali esplosive, le migrazioni: i temi trattati dallo scrittore giapponese raccolgono le spore della contemporaneità, dragano incoerenze e setacciano possibili vie di uscita. Autore prolifico, fantasmagorico, la bibliografia di Furukawa Hideo comprende una trentina di opere, fra cui un progetto multiforme connesso al disastro nucleare di Fukushima del 2011, articolato in un romanzo, un adattamento teatrale, un laboratorio che ha dato la possibilità alle persone coinvolte nella tragedia di definire e modulare, attraverso la scrittura, l’indicibile e le esperienze vissute.
<<Esistono ancora nel nostro pianeta città in cui la natura non sia stata modificata per permettere a noi essere umani di sopravvivere? In Italia, per esempio, ci sono cittadine e paesi senza impianti di riscaldamento, acquedotti, condotti fognari e altre infrastrutture? Il genere umano, tranne forse rarissimi casi in angoli sperduti della Terra, non risiede più da diverso tempo in “comunità secondo natura”. Pertanto, siamo già in un contesto più o meno “apocalittico”>>. (da un’intervista di Noemi Milani all’autore).
In Italia Furukawa Hideo è pubblicato dall’editore Sellerio (“Belka”, 2013; “Tokyo soundtrack”, 2018; “Una lenta nave per la Cina. Murakami RMX”, 2020).
Yōko Ogawa
L’incontro con la letteratura, per Yōko Ogawa (1962), avviene grazie al Diario di Anna Frank: ne viene a conoscenza durante il periodo della scuola media, e rimarrà un suo punto di riferimento per tutta la giovinezza e oltre (nel 1994 intraprenderà un viaggio in Europa sulle tracce della giovane deportata ebrea).
La profondità di visione, l’intuito folgorante di uno dei simboli massimi della Shoah, suggerisce a Yōko Ogawa un percorso, e se aggiungiamo il fatto che i genitori della scrittrice, seguaci della religione Konkōkyō, coordinavano la comunità shintoista di Okayama, possiamo presupporre una sua attenzione particolare verso i temi della spiritualità, della percezione in quanto eco del respiro trascendente. «Ogni volta che scrivo un romanzo, la parte del corpo che lavora più intensamente è l’udito. Posso sentire il rumore dell’esplosione di una stella che scompare ai confini dell’universo, oppure il lamento di una persona morta tra le ceneri di un forno crematorio in un campo di concentramento. A tutte queste anime, offro un posto dove stare, il racconto. Per me, scrivere, equivale a compiere questa missione>>. (Traduzione dal giapponese di Anna Specchio).
La prima pubblicazione di Yōko Ogawa risale al 1988, ed è seguita da due romanzi dati alle stampe l’anno successivo. Senza alcun dubbio un avvio di carriera folgorante: vince e viene selezionata in diversi premi letterari, e già qualche anno dopo la sua notorietà inizia a oltrepassare i confini nazionali. È però con l’opera “La formula del professore“, pubblicata in Italia nel 2004, che ai riconoscimenti della critica si aggiunge il riscontro in termini di copie vendute (circa 250.000 solo in Giappone) e di interesse da parte dell’industria cinematografica (dal romanzo è tratto un film uscito nel 2006, diretto da Takashi Koizumi).
Si delinea uno stile, una gamma di filtri con cui decodificare la realtà: viene inserita, Yōko Ogawa, nelle correnti alimentate dal postmodernismo – nel “black romanticism”, in particolare -, collocazione per certi versi plausibile, vista l’intrusione, nella fisiologia ideativa della scrittrice, di elementi sincretici, paradossali, e la scelta di privare molti dei suoi protagonisti di identità solide e accertabili. Staziona nelle pagine un senso di alienazione, sollecitato da una scrittura affilata, dove il mistero attende sulla soglia per assolvere il compito di destabilizzare, condurre a un livello superiore di comprensione. L’orrore cosparso di miele, il destino di un’umanità smemorata, la ricerca di un luogo “perfettamente ripulito dalla sporcizia della vita”: il tessuto filosofico di Yōko Ogawa (comprendente una quarantina di opere) è pregiato, ricamato da figurazioni potenti, accalcate sul margine dell’abisso. <<Non possiamo far altro che tentare di fare del nostro meglio con questo cuore inconsistente, pieno di vuoti. È per questo che mi affascina quella sensazione gelatinosa, la consistenza di quel cuore: quel cuore corposo e solido, che sembra trasparente ma non lo è, che assume aspetti diversi quando lo esponi alla luce>>. (da “L’isola dei senza memoria”).
Oltreché in Italia i suoi libri sono stati tradotti in Francia, Germania, Spagna, Grecia, Stati Uniti, Taiwan, Cina. Nel nostro paese sono usciti “L’isola dei senza memoria” (Il Saggiatore), “L’anulare” (Adelphi), “Una perfetta stanza di ospedale” (Adelphi), “Vendetta” (Il Saggiatore), “Hotel Iris” (Il Saggiatore), “Profumo di ghiaccio” (Il Saggiatore), “La casa della luce” (Il Saggiatore), “La formula del professore” (Il Saggiatore), “Nuotare con un elefante tenendo in braccio un gatto” (Il Saggiatore).
Natsuo Kirino
Ha debuttato nella narrativa scrivendo romanzi rosa, Natsuo Kirino, e questa circostanza appare – ai nostri occhi – perlomeno bizzarra. Un cambio di rotta brusco, a inizio degli anni ’90, ha infatti prodotto uno dei tracciati narrativi più esplosivi del Giappone contemporaneo, assimilabile ai filoni noir, hard boiled e horror, e capace di sottolineare, parallelamente, le molte conflittualità che caratterizzano la società nipponica. Già il fatto che la scrittrice, nata nel 1951 a Kanazawa, nella prefettura di Ishikawa, abbia scelto per sé uno pseudonimo di genere maschile, fornisce un indizio su come il suo impegno nella scrittura non si fermi all’ideazione e alla messa a regime di storie. <<Non volevo finire associata alla cosiddetta “scrittura femminile”, a quel genere che le librerie relegano in scaffali a parte>> ha dichiarato in un’intervista a Marco Del Corona, lasciando trasparire, non troppo velatamente, il suo dissenso verso tradizioni e assetti che assegnano ruoli e competenze a prescindere.
“Le quattro casalinghe di Tokyo”, pubblicato nel 1997 e finalista, nella versione inglese, agli Edgar Award del 2004, è il romanzo che le ha spalancato le porte della notorietà. Si tratta di un thriller che mescola ironia, strafottenza e gusto per le messa in scena splatter, e che muove le protagoniste verso un’emancipazione definitiva, che non può che inoltrarsi nei corridoi dell’efferatezza. Femminismo deflagrante, per certi versi terapeutico, che ha il pregio di far emergere – dopo la violenta mareggiata – alienazioni e deformazioni relazionali. A tutt’oggi “Le quattro casalinghe di Tokyo” è da considerarsi il suo romanzo più emblematico, avendo come architrave la questione femminile, in particolare, e dando vita a una panoramica impietosa delle perturbazioni che bersagliano l’individuo nel tempo presente. L’analisi psicologica dei personaggi, delle affiliazioni corporative, si giova di una scrittura essenziale, nitida, di intrecci multidimensionali che agiscono come acceleratori di interesse. Non maschera le depravazioni, Natsuo Kirino, la violenza è ingrediente quasi assodato, fisiologico, e la causticità che alimenta le trame è un antidoto alle rimozioni, all’ipocrisia. Una forte componente di rottura caratterizza il suo stile, è propedeutica alla trasposizione di verità urticanti (l’infedeltà, l’assenza di valori, la perversione come atto fondativo); ma non mancano figure e stilemi che richiamano al noir classico, all’hard boiled più sanguigno, con la descrizione di situazioni limite, la suspense, l’intersecarsi di mondi all’apparenza antitetici: dai quieti salotti borghesi, dove il fuoco cova sotto la cenere, ai sottoboschi criminali, disdicevoli, dove possono celarsi sensibilità e valori umani ritenuti estinti.
Di Natsuo Kirino, in Italia, sono stati pubblicati “Le quattro casalinghe di Tokyo” (Neri Pozza, 2003; BEAT, 2016), “Morbide guance” (Neri Pozza, 2004; BEAT 2017), “Grotesque” (Neri Pozza, 2008; BEAT, 2012), “Real World” (Neri Pozza, 2009), “Pioggia sul viso” (Neri Pozza, 2015), “La notte dimenticata dagli angeli” (Neri Pozza, 2016), “In” (Neri Pozza, 2018).
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