Libri che parlano di scuola, la nostra selezione

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La scuola come specchio della realtà, snodo di collisioni e avventure relazionali. Dialogo e confronto reggono programmi e diktat procedurali, in un costante fluire e defluire di emozioni che vanno sapientemente direzionate. I punti di vista compresi nella nostra selezione sono un campionario minimo, un antipasto della complessità: gli studenti che giudicano i professori per rafforzare il proprio Io, gli studenti sotto la lente di ingrandimento dei compagni, le deviazioni dalla norma illuminate e quelle tossiche, le difficoltà di apprendimento come risorsa e accettazione del limite.

L’ultima lezione di Miss Bixby” di John David Anderson

La scuola come strumento di crescita”, e non è una frasetta da prendere sotto gamba; ci appare come un laboratorio artigianale la classe di Brand, Steve e Topher – alunni e amici inseparabili –, un posto dove la mente e il cuore sono sistemate su un banco da lavoro, e dove si alternano insegnanti più o meno bravi ad avvitare passioni, a limare insicurezze e fragilità.

I prof scannerizzati dallo sguardo curioso, insolente quanto basta: sfilano dal corridoio alla cattedra gli Zombie; i caffeina dipendenti; i minacciosi Dungeon Master; i cinefili Spielberg; i Novellini e infine i Buoni, rappresentati con grazia dalla professoressa Bixby.

Ciocche rosa e occhi verdi, la Bixby rende palpabile lo stupore e la meraviglia, citando in classe brani da Lo Hobbit e dispensando ai suoi alunni il carburante essenziale – passione e amorevolezza – per crescere e credere in se stessi.

Ogni alunno custodisce una storia, e la comunità scolastica è il palcoscenico giusto per metterla in scena, per farne sostanza da condividere; Bixby “la buona” orchestra ruoli e drammaturgie, fino a quando, suo malgrado, è costretta ad abbandonare la classe a causa di una malattia che non lascia scampo.

Per Brand, Steve e Topher è il momento di incassare ed elaborare un’esperienza dolorosa, facendo tesoro dell’energia positiva che la loro insegnante ha trasmesso in dosi massicce durante le sue scoppiettanti lezioni.

Per lei i tre amici inseparabili ideeranno un piano fantasmagorico, un tributo che si perfezionerà come magia, come professione di bellezza.

L’ultima lezione di Miss Bixby di John David Anderson è un libro abbigliato di vivacità, ricco di citazioni e di momenti impagabili; ma è anche un racconto di formazione, che tratta argomenti delicati come la malattia e la morte, e che propone un’idea di scuola affrancata dal nozionismo e dalla noia.

Diario di scuola” di Daniel Pennac

Uscito in Italia nel 2008 “Diario di scuola” conserva il suo passo agile, produce riflessioni fragranti, fiorisce ad ogni stagione come fatto culturale.

D’altronde la figura del somaro, dello studente inetto, peculiare nel memoir di Pennac, si modella in ambiti ed epoche differenti, oltrepassa formulazioni educative e di indirizzo politico.

Lo stesso Pennac – lo rende noto lui stesso nel dipanarsi del racconto – è un ex studente inadeguato, frenato da difficoltà oggettive e sopratutto dalla refrattarietà a conformarsi.

La speranza di ogni somaro, al di là di caratterizzazioni e pose difensive, è di emergere nell’arena didattica, e di avere al proprio fianco un insegnante comprensivo, accudente e benevolo; perché esiste il mal di scuola, il meccanismo che dalla cattedra all’ultimo banco e viceversa genera avversione, distanze fino a un certo punto incolmabili.

Dall’esperienza diretta, indelebile, lo scrittore francese raccoglie materiale per compiere un’indagine sul pianeta scuola; si coagulano il percorso di apprendimento e la successiva trafila da insegnante, per offrire argomentazioni sul ruolo dei genitori, sulle dinamiche che confluiscono nel giovanilismo, nell’apoteosi dell’apparire e del disimpegno.

Il gusto della conoscenza può essere temporaneamente convertito in moneta cangiante, ma non cancellato nelle menti e nei cuori in divenire; è sufficiente uno spunto, una mossa imprevista, per dare respiro al talento, come nel caso del professore che individuò nello sfaccendato di turno – Daniel Pennac, ça va sans dire – la curiosità per la scrittura, l’abilità nell’inventare storie.

Quando il flusso contemporaneo dispone mode, strumentalizza le nuove generazioni inchiodandole ai loro smartphone, il ruolo della scuola può assumersi il compito, urgentissimo, di fare il punto sulla realtà. In ciò si fa tramite un giocoliere della parola, propugnatore dell’accoglienza e dell’ottimismo (basti pensare alla saga della famiglia Malaussène), che con la sua frizzante ironia propone versioni pedagogiche e stralci – a volte toccanti, a volte spassosi – di vita vissuta.

Registro di classe” di Sandro Onofri

Due decenni fa “Registro di classe” aprì un dibattito sulla scuola, mentre all’orizzonte si profilavano enormi cambiamenti prodotti dall’informatizzazione, da una rovinosa contaminazione dei valori educativi perpetrata dalla politica, dall’ingegneria del profitto.

La lucidità, l’efficacia che promana dalle pagine di “Registro di classe”, acquista valore nello scorrere del tempo; le questioni germinali, illustrate da Sandro Onofri, rendono conto di una deriva progressiva, che è strutturale, specifica della scuola, e culturale in senso lato.

Quindi azzeccata, da parte dell’editore minimum fax, la riproposizione del libro, diario di un insegnante che non esita a esternare le proprie difficoltà, lo straniamento vissuto giorno per giorno, in classe e nei diversi contesti sociali.

La passione rimane il motore essenziale, per sfuggire alle delusioni e per conservare integrità e rispetto per se stessi; Onofri oppone alle lamentele dei colleghi, al conformismo dei genitori, la limpidezza di un’impostazione rigorosa, riferibile costantemente all’equanimità dei rapporti educativi.

La bussola di Sandro Onofri riconosce nello sguardo degli alunni la direzione da prendere: ogni volto rivela un’identità, disposizioni e contingenze ambientali, perché far risaltare, affermare le differenze, significa costruire una città nuova, una classe scolastica in dialogo con il futuro.

Registro di classe” è il lascito di un educatore onesto, poco avvezzo ai sentimentalismi, che si permetteva di guardare in faccia la realtà. Non lo sorprendeva il fatto che nell’istituto dove insegnava soltanto un alunno su settanta avesse letto Pinocchio di Collodi, e che quotidianamente si potesse certificare l’inefficacia degli studi umanistici sull’umanizzazione della società. Il suo è stato realmente un testamento, l’eredità lasciata al mondo della scuola alla fine del XX secolo: Onofri, infatti, morì nel 1999 a soli 44 anni, e la pubblicazione postuma dell’opera fu sostenuta dalla moglie, che ne recuperò la stesura incompleta nel computer di casa.

Dio di illusioni” di Donna Tartt

La scrittrice americana Donna Tartt nei suoi romanzi – thriller introspettivi, dalle ambientazioni accuratissime – costantemente fa riferimento all’età giovanile. Trame appassionanti e la capacità di costruirle attorno a un tema centrale, a un nucleo disturbante di passioni e traumi irrisolti: le identità in formazione rappresentano quindi un terreno fertile da dissodare, con il loro campionario di ritualità e imprese iniziatiche.

L’elegante college nel Vermont che fa da scenario al romanzo raffigura il perfetto micromondo giovanile: ai poli opposti il pragmatismo contemporaneo e la fascinazione per la classicità, la quiete e l’inquietudine con le loro divisioni e la possibilità, non sempre scevra da conseguenza drammatiche, di abiurare e collocarsi sul versante opposto.

Una cricca di studenti ricchi e annoiati manda a memoria una mitologia riveduta e scorretta; fanno riecheggiare nei loro atti sguaiati le gesta dionisiache, traendo ispirazione dalle iperboliche lezioni di un insegnante di greco antico.

Henry, Francis, Bunny e i gemelli Charles e Camilla, si muovono sul crinale della dipendenza, concedendosi a droghe e all’esercizio estremo della sessualità; disertano la morale, elaborano strategie manipolatorie che trovano in Richard, studente di tutt’altra pasta, dalle solide – seppur rinnegate – radici conformiste –, un bersaglio attraente, isolato dal branco in quanto dubbioso, naufrago alla ricerca di un’identità appagante.

Il giovane borghese vede nei suoi cinque compagni l’arricchimento impagabile, in loro riconosce la congiunzione fra il presente e un’idealità fuori quota, le pulsioni prima della strutturazione del mondo.

Non contano più le mura squadrate dell’università, le convenzioni e le formule per accaparrarsi il futuro: la setta dei poeti insaziabili brama la pienezza dell’atto, amoreggia con la verità apocrifa delle Illusioni, fino alla sconvolgente esaustività della colpa e dell’impossibilità di porvi rimedio.

Dio di Illusioni” è un romanzo ottimamente strutturato, in cui è riconoscibile la scrittura puntuale ed elegante di una fuoriclasse della narrativa americana; e nel gorgo della lettura, piacere che non richiede chiarimenti, si insinua la problematicità sottaciuta, l’idea che ogni forma educativa è in divenire e potrebbe cagionare un deragliamento, una narrazione non prevista.

”Il bambino che disegnava parole. Un viaggio verso l’isola della dislessia e una mappa per scoprirne i tesori” di Francesca Magni

Teo sta per entrare nell’adolescenza, e i cambiamenti che manifesta sono inequivocabili, almeno dal punto di vita dei suoi genitori.

Si tratta di un fase della crescita delicata, che più o meno tutti abbiamo attraversato con difficoltà, ma a pensarci bene appare così categorico il passaggio del ragazzo dall’essere uno scolaro brillante all’essere uno studente delle medie problematico.

Diventa quindi naturale per i genitori rivolgersi a degli specialisti e il verdetto sarà unanime: Teo è affetto da dislessia.

Dotato di un’intelligenza vivace, di una capacità di elaborazione fuori dal comune, fino a quel momento Teo ha saputo sopperire con delle “strategie compensative” alle richieste della didattica di base, ritrovandosi però disorientato quando le lezioni sono divenute più complesse e le ambizioni frustrate hanno iniziato a scalfire la sua autostima.

Il problema di Teo va affrontato, con la consapevolezza che il suo percorso sarà in condivisione con la famiglia, i suoi genitori e la sorella minore Ludovica.

Mamma Francesca lotta per comprendere, studia testi che trattano del disturbo dislessico, si pone come punto di riferimento per il figlio, alimentandone la fiducia in se stesso e la combattività. Non mancano comunque tensioni, nonostante sia ben chiaro a tutti l’obiettivo da perseguire per il bene del ragazzo: Pietro, il padre, a volte viene tradito dall’impulsività e si lascia andare a dei giudizi avventati, mentre Ludovica reclama con forza le attenzioni di mamma e papà, adesso indirizzate quasi esclusivamente al fratello.

E poi c’è la realtà fuori dalle mura domestiche, puntellata da normative e impalcature burocratiche; in tale contesto risulta fondamentale la collaborazione con la scuola, la capacità di quest’ultima di trasformare il problema di un singolo studente in una risorsa per la collettività.

Il bambino che disegnava parole” di Francesca Magni narra un’avventura personale, in cui trasporto emotivo e competenza vanno a braccetto, e le criticità della vita vengono valutate con obiettività, senza scadere in pietismi e luoghi comuni.

L’alternarsi di entusiasmi e momenti di impasse, di ostacoli e risorse per superarli, offre una prospettiva reale sulla dislessia, caratterizza il libro di Francesca Magni e contribuisce a renderlo uno strumento prezioso, in particolare per gli insegnanti e le famiglie.