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Dieci poeti russi. Memoria della rivoluzione d’ottobre

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Nel 1930, poco dopo il suicidio di Majakovskij, uscirono in un volume (Smert’ Vladimira Majakovskogo, Berlin) due saggi dedicati al poeta: uno, dimenticabile, del critico Dmitrij Svjatopolk-Mirskij, l’altro, indimenticabile, del linguista Romàn Jakobsòn. Quest’ultimo reca un titolo emblematico: Una generazione che ha dissipato i suoi poeti.

Jakobsòn si sofferma su quella che definisce “estinzione” di una generazione di poeti, vittime della Rivoluzione e di ciò che ne ha seguito, morti suicidi o di malattia. La ragione dell’estinzione è da lui motivata come scollamento dal presente e “avidità” verso il futuro da parte di quelli che sono stati testimoni di grandi mutamenti.

Qui di seguito ricorderemo i poeti estinti, e in generale quei poeti che hanno attraversato l’evento che sconvolse la Russia: la Rivoluzione d’Ottobre del 7-8 novembre 1917 (24-25 ottobre nel calendario giuliano), insurrezione decisiva della rivoluzione russa iniziata a febbraio che determina la nascita della Repubblica sovietica.

 

 

Anna Andreevna Achmatova (Bol’soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966)

Achmatova è pseudonimo di Gorenko, cognome del padre che era funzionario russo e, come la madre, di famiglia nobile.

Dal 1910 al 1918 fu moglie del poeta Nikolaj Gumilëv, motivo per cui fece parte della Corporazione dei Poeti di cui il marito fu fondatore e che praticò l’acmeismo, movimento letterario nato in opposizione al simbolismo e, per opposizione, rivolto a una poesia chiara e concreta.

La prima opera di Achmatova fu La sera, del 1912; nel corso degli anni pubblicò in maniera discontinua, concedendosi o costretta a lunghe pause, questo perché le sue poesie sono sempre state sospette all’URSS. Gumilëv fu fucilato nel 1921 per motivi politici, il loro figlio Lev, sempre per motivi politici, fu imprigionato dal 1935 al 1940, lei stessa subì prima la censura e poi, nel 1946, l’espulsione dall’Unione degli Scrittori Sovietici per estetismo e disimpegno politico. Fu riabilitata solo nel 1955.

Le sue poesie, per lo più brevi, possono essere considerate “poesie d’occasione” perché legate quasi sempre a un tempo e a un luogo preciso. Esse parlano di amore “bello e terribile” (come dice il critico Renato Poggioli), della condizione femminile, cose e luoghi rappresentano l’intimo, non a caso lo stesso Poggioli la considera una “Emily Dickinson priva d’inibizioni e di intellettualismo puritano”.

 

 

Aleksandr Aleksandrovič Blok (San Pietroburgo, 28 novembre 1880 – 7 agosto 1921)

Figlio di letterati, separatisi i genitori Blok si trasferì vicino Mosca: fu accolto da parenti dell’alta società.

Gravido di conseguenze per la sua opera fu l’amore verso Ljuba Mendeleeva, che sposò nel 1903 e che incise negativamente sul rapporto di amicizia di lui con il poeta simbolista Andrej Belyj.

Le prime poesie furono raccolte nel ciclo Ante Lucem (1898-1900).

 

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Il raffinato studioso Angelo Maria Ripellino sottolinea, dell’opera di Blok, la posizione mediana tra due epoche e due mondi: il mondo borghese e quello del nuovo mondo comunista, un passaggio vissuto come catastrofe.

Le liriche di Blok formano una sorta di romanzo il cui protagonista è il poeta. Esse oscillano tra misticismo e perdizione come riscatto “d’una vita deserta, insipida, inutile” (Ripellino), e lo stile è imbevuto di cultura ottocentesca.

 

 

Velimir Chlebnikov (Oblast’ di Astrachan’, 9 novembre 1885 – Santalovo, 28 giugno 1922)

Velimir Chlebnikov è pseudonimo di Viktor Vladimirovič Chlebnikov.

Famoso il suo aspetto aviforme. vagabondò irrequieto da un luogo all’altro, prima di morire di paralisi a casa di un amico, causa l’inedia.

Orgoglioso della propria missione poetica, istrionico, burlesco, Chlebnikov insieme a Majakovskij fu il massimo esponente del futurismo russo. Coerenti con il futurismo, i contenuti della sua opera oscillano tra primitivismo (tanti i riferimenti folklorici) e visione dell’avvenire.

Teso alla distruzione del vecchio linguaggio, Chlebnikov operò di sperimentazione, e i suoi testi abbondano di neologismi.

Ripellino ne riassume così il complesso intrico poetico: “Chlébnikov è artefice di prestigiose misture. Nei suoi lambicchi letteratura e botanica, natura e storia si fondono”.

 

 

Vladislav Felicianovič Chodasevič (Mosca, 16 maggio 1886 – Parigi, 14 giugno 1939)

Abbandonati gli studi universitari per la poesia, Chodasevič pubblicò la sua prima silloge poetica, Giovinezza, nel 1907.

Critico importante e di intuito (sostenne un giovane Vladimir Nabokov, dal quale a sua volta fu considerato il maggiore poeta russo del Novecento), i suoi articoli più importanti furono raccolti in Necropoli (1939).

Fu sposato e poi separato con la scrittrice Nina Berberova.

Abbandonata la Russia nel 1922, soggiornò a Sorrento, Berlino e Parigi.

 

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Dedito al culto della classicità pur avendo scritto nel periodo in cui si imposero simbolismo, acmeismo e futurismo, il poeta cerca un equilibro nella tensione dualistica tra uomo e mondo, vuol trovare ordine nel caos, e la conseguenza è uno stile sobrio, frugale, essenziale.

 

 

Marina Ivanovna Cvetaeva (Mosca, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941)

Visse povertà e tragedie – la scomparsa del marito, poi fucilato dall’NKVD; l’internamento della figlia in un campo di lavoro – prima di impiccarsi appena due anni dopo il suo ritorno a Mosca, lasciata all’inizio degli anni Venti per Berlino, Praga e Parigi.

Fu poetessa invisa al regime staliniano perché il suo percorso poetico iniziò con la glorificazione della lotta anticomunista portata avanti dalla Guardia bianca in cui il marito militava. In vita la sua opera non ebbe mai il meritato riconoscimento, ebbe diffusione solo dagli anni Sessanta, quando iniziò a essere apprezzata.

 

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Le sue liriche furono influenzate da Blok, Pasternak e i futuristi. Rispetto a Achmatova, aveva uno stile virile e la donna in lei non era amante, ma sorella e madre. Fatalista e tragica, rappresentò magnificamente la guerra civile in una strofa in cui i colori delle due fazioni si scontrano con quelli della morte e del sangue:

Di bianco rosso divenne –
dal sangue fu colorato;
di rosso bianco divenne –
da morte fu scolorato.

(cito da R. Poggioli, Il fiore del verso russo. Da Puškin a Pasternak un secolo di poesia, 1949, Mondadori, 1968, p. 122).

 

 

Sergéj Aleksándrovič Esénin (Konstantinovo, 3 ottobre 1895 – Leningrado, 28 dicembre 1925)

Nato da famiglia contadina, Esénin si trasferì prima a Mosca dove lavorò come correttore di bozze, poi a San Pietroburgo, dove fu riconosciuto poeta di caratura in giovanissima età.

Il suo primo libro di poesie, La commemorazione dei defunti, uscì nel 1916. Amò molte donne, ne sposò tre, tra queste la danzatrice statunitense Isadora Duncan.

Combatté durante la Rivoluzione d’Ottobre, sostenne il comunismo, poi, disilluso, se ne staccò. Sregolato, disperato, alcolizzato, Esénin abbracciò la morte nel 1925, impiccandosi ad appena trent’anni.

La sua opera, in seguito, fu messa all’indice in Unione Sovietica fino agli anni Sessanta.

Poeta della natura, in un verso Esénin si definisce esplicitamente “ultimo poeta contadino”. Fu anche cantore della Rivoluzione, seppur per breve lasso di tempo, prima della disillusione. Si volse maggiormente alla visione contemplativa e idillica di un mondo rustico, assumendo talvolta uno sguardo infantile.

 

 

Nikolaj Stepanovič Gumilëv (Kronštadt, 15 aprile 1886 – Pietrogrado, 24 agosto 1921)

Gumilëv studiò alla Sorbona di Parigi e viaggiò molto, legandosi in particolare all’Africa.

Sposò la poetessa Achmatova, si arruolò volontario alla Prima guerra mondiale guadagnandosi croci al valore, tornò in Russia nonostante fosse anticomunista, morì nel 1921, fucilato insieme a 60 compagni, con l’accusa di partecipare a un complotto monarchico. Una vita breve ma intensa, in cui si dispiega un percorso poetico e critico altrettanto intenso.

Nel 1911 fondò con Gorodeckij l’associazione “Gilda dei poeti”, che in opposizione al simbolismo era per una poesia frutto di lavorio artigianale. Nacque così il movimento dell’acmeismo teso alla chiarezza, alla concretezza, cui aderirono Achmatova e Mandel’štam. L’oggettivismo del movimento, tuttavia, in Gumilëv si scontrò con l’idea della natura come Sfinge, con un temperamento visionario, con una visione fatalistica dell’uomo.

 

 

Michail Alekseevič Kuzmin (6 ottobre 1872 – 1º marzo 1936)

Sostenne la Rivoluzione ed è noto come autore del primo romanzo russo a tema omosessuale: Vanja. Un’educazione omosessuale, scritto nel 1906.

Poeta minore legato alla tradizione ma dal piglio epicureo ed estetizzante, Kuzmin fece parte del gruppo dei poeti acmeisti ed esplorò l’omosessualità anche nei versi. La sua opera risente volutamente l’influsso di altri poeti al punto che la sua opera maggiore fu, come dice Poggioli, un pastiche d’un pastiche. Stiamo parlando di Canti d’Alessandria, datato 1906, raccolta di brevi poesie di giovani e ragazze in lode della giovinezza e dell’amore, ispirate alle Chansons de Bilitis di Pierre Louys (diffusa dal francese come traduzione di liriche di un’etèra alessandrina).

 

 

Vladímir Vladímirovič Majakóvskij (Bagdati, 7 luglio 1893 – Mosca, 14 aprile 1930)

La vita di Majakóvskij, individuo di prematuro spirito ribelle, si distinse per militanza rivoluzionaria da età giovanissima, nel 1908. Durante la Rivoluzione mise la sua arte, già molto nota, al servizio del comunismo facendo propaganda tramite la poesia.

Fondò il LEF (Fronte di Sinistra delle Arti) e aderì al RAPP (Associazione degli Scrittori Proletari Russi). Alternò la febbrile attività poetica, talvolta avversata dal regime stalinista, alle conferenze di propaganda politica.

 

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Si suicidò con un colpo di pistola il 14 aprile 1930, forse per delusioni politiche, forse per delusioni amorose.

Difficile riassumere in poche parole l’importanza della sua opera poetica e teatrale.

Fu iniziatore della rivoluzione futurista. I suoi versi erano scanditi non dalle sillabe ma dagli accenti, erano scritti in una maniera teatralizzata, esigevano una lettura ad alta voce e una particolare gestualità. Si distinse per l’uso del verso libero, il più adatto per cantare la Rivoluzione. Poggioli scrive che “l’anima della sua arte non è proletaria o popolare, ma plebea”, a conferma di ciò il ricorso a una terminologia volgare e oscena.

 

 

Osip Ėmil’evič Mandel’štam (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938)

Inizialmente vicino al bolscevismo, in seguito ne fu aperto critico. Scrisse nel 1933 il famoso Epigramma di Stalin che si rivolgeva con tono satirico al successore di Lenin. Nel 1934 fu arrestato dall’NKVD, ma evitò i campi di lavoro per il confino agli Urali. Il poeta tentò il suicidio e la sua pena fu rivista: gli fu impedito solo di entrare nelle grandi città. Arrestato di nuovo nel 1938, questa volta fu condannato ai lavori forzati in Siberia. Non sopravvisse all’esperienza del gulag.

Le poesie di Mandel’štam si distinguono innanzitutto per cultura raffinata, volta spesso alla classicità e all’ellenismo in quanto espressioni di innocenza e perfezione. Si unì ai poeti acmeisti.

Definito da Brodskij il più grande poeta russo del Novecento, di lui scrive Ripellino: “Osip Mandel’štam ci appare come un poeta greco o latino che scriva in russo. Benché egli senta i valori della parola in modo del tutto moderno, la densità concettosa, il ritmo solenne, la ricchezza di soggetti antichi pongono il suo verso sul piano della poesia classica”.

 

 

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